Articoli di Giovanni Papini

1957


in "Gli inediti di Papini":
Ciechi
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 214, p. 3
Data: 8 settembre 1957


pag. 3




   Abbiamo tutti, sotto la facciata della fronte, due specchi per ricever le immagini del mondo, ma il velame della Caduta e le cispe delle abitudini hanno fatto di noi tanti ciechi che non vedon neppure la propria cecità.
   Qualche martire felice riesce a salvare la vista interiore, la vera, e la moltitudine dei ciechi, dopo averli lapidati d'ingiurie o di sassi, li appende nelle vetrine della fama col nome di profeta o poeta dispensandosi coll'adorazione dall'obbligo di ubbidirli. E i più rimangon ciechi, inguaribili e brancolanti ciechi. Ebbero qualche visione di verità nella fanciullezza o nella gioventù e ne serbano un ricordo lontano come d'una luce che balenò all'entrata della caverna, e che spensero per non turbare la grassa pace delle tenebre. E l'anima loro a poco a poco si addormenta nell'oscurità sicchè passano senza accorgersi dal buio del sonno al buio della cecità e dal buio della cecità al buio della fossa e hanno guardato senza aver visto e vanno alla morte senza aver vissuto.
   Molti di noi muoiono senza aver mai veduto le cose più comuni e più meravigliose del mondo, senza aver mai guardato davvero la ramatura fogliata di un albero, la remota purezza d'una stella, una stesa di fiori, un cielo intenerito dalla stanchezza del tramonto, il casto splendore d'un bambino o d'un vecchio.
   Hanno visto nel firmamento una gran dispensa d'acqua e di luce e nei volti degli uomini soltanto guancie da baciare o da schiaffeggiare, ma non hanno mai scoperto la perfezione delle cose, la grazia delle creature. Sono stati ciechi per tutto quello che non era misura e peso, lettere scritte o stampate, numeri e simboli. La ricchezza dell'universo l'hanno contata, ma non l'hanno veduta: in una foresta hanno visto legna da vendere, nei prati il futuro fieno, nel mare una gran tinozza per sguazzare, nel fratello vivente un cliente da sfruttare, una carne da vendere o da noleggiare, un servo, un nemico, un complice, un compagno di gioco o di noia.
   Moltissimi vivono anni ed anni accanto a un'anima semplice, giusta e preziosa e non se n'accorgono; è nascosta dall'umiltà o dalla stessa sua grandezza e non la sanno scoprire, e per anni e anni son ciechi alla bontà e alla luce di quell'essere e soltanto dopo ch'è morto, avvertiti, le vedono e si meravigliano. Quell'uomo così malmesso, così magro, così silenzioso era un santo? Quel giovane salvatico e scarmigliato era un gran poeta? E chi poteva mai dirlo? E chi se n'era accorto? Se l'avessi saputo! Quante cose gli avrei chiesto, quante volte l'avrei interrogato o consolato!
   Ma nessuno pensa, neanche dopo, a confessare la propria cecità e altre anime grandi soffriranno splendendo e i più non sapranno vedere quella grandezza, quel dolore, quella luce.
   E infiniti son quelli che non sanno vedere il male — non già il male altrui, che per questo son linci — e son ciechi dinanzi all'infamia di ciò che desiderano e fanno. Rubare sembra una rivalsa legittima contro l'ingiustizia e l'ineguaglianza; corrompere una donna una necessità della passione divina e invincibile; ammazzare un uomo un atto indispensabile e glorioso; infamare gli assenti un omaggio alla verità.
   L'odio accieca fino al punto da non far riconoscere nel perseguitato noi stessi; l'amor del guadagno accieca fino al punto da far scambiare per ricchezza i gettoni simbolici dei possessi meno desiderabili — e più di tutto accieca l'orgoglio che per lo stesso acciecamento sempre più si rafforza.
   Tutto è cagione di cecità, anche i sentimenti che c'inalzano, anche l'amore che ci nasconde le bruttezze e le colpe dell'amato, anche l'entusiasmo che ci toglie la visione dell'ombre e dei precipizi, anche il pensiero della salvezza, che, diviso dalla carità, non fa scorgere le miserie dei prossimi.
   Ma vi sono anche cecità volontarie e sante: quella del misericordioso che chiude gli occhi sulle macchie dell'infelice; quella del generoso che vuole perdonare e si rifiuta di vedere, i tradimenti e i rancori del nemico; quella dell'estatico che, astratto nella visione d'Iddio, diventa cieco per gli spettacoli terrestri. Ma il santo è cieco perchè fu abbacinato dall'immensa luce dell'Essere, che gli dà la suprema chiaroveggenza, ed è cieco in quei momenti soli mentre noi siamo ciechi che non sanno neppur ritrovare, nella notte voluta, le loro anime spente.


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