Rifiuto del Parsifal
| Pubblicato su: | Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 20, p. 3 | ||
| Data: | 23 gennaio 1955 |

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Finiscono in questi giorni quarant'anni dalla sera di quella sopportazione eroica che fu l'ascolto teatrale del Parsifal di Riccardo Wagner. Sopportai valorosamente tutto lo spettacolo e lo spartito fino all'ultima nota, pugnando con sovrumana forza contro il torpore, il sopore e il languore, ma quando uscii dal Teatro Comunale di Firenze giurai a tutte le deità femmine dell'Olimpo e del Walhalla che mai più sarei andato ad ascoltare quel letale capolavoro.
Ho mantenuto il giuramento per tutti questi anni a dispetto di ripetute tentazioni, perchè sento ancora sullo spirito e sul corpo l'immane peso di quella tetra fatica.
Più di cinque ore di noia sonora, più di cinque ore di uggia musicata, più di cinque ore di melopea monotona, più di cinque ore di fastidio canoro, di recitativo prolisso e implacabile, di nenie piangevoli e di effusioni isteriche, di simbologia contrappuntata e sospetta. E in tutte quelle cinque ore e più c'era forse appena mezz'ora di musica profonda e autentica, ma che si doveva pagare a un prezzo talmente alto, che la gioia stessa di quei rari momenti veniva indebolita e diminuita.
Si penserà che io a quel tempo non ero capace di comprendere i misteriosi significati della ricerca del Graal, con tutti i suoi mistici contorni e i suoi magici annessi; che per conseguenza non potei godere la solenne e religiosa grandiosità dell'opera wagneriana. Dirò, invece, che da molti anni mi ero preparato ad ascoltare questo misterioso Parsifal, che a Firenze non era mai stato eseguito e che io fin dall'adolescenza bramavo di conoscere. Ma ciononostante non mi riuscì di ammirare quelle interminabili tenzoni misteriosofiche, quelle inesorabili ripetizioni di cadenze e di battute, di temi e di frasi, quelle processioni di cavalieri che sembrano monaci, di maghi che si danno arie di santi, di sacerdoti che hanno più dell'attore che dell'asceta. Ma i più, per paura di passare da incolti e da insensibili, da non raffinati e da non iniziati, vanno in branchi compatti e paganti ad ascoltare il Parsifal, e magari più di una volta, e ne parlano, dopo, con giulivi ed estatici accenti. Ma io credo, per mio conto, che il Parsifal sia una specie di stupefacente armonico e metafisico di natura seppiacea ed oppiacea, il quale, preso ad alte dosi, intontisce gli ascoltatori in modo che questi, alla fine, sotto l'influsso nefasto di quella droga vocale e strumentale, vengono sopraffatti da una suggestione ammirativa e laudativa in altro modo inesplicabile. Son pronto ad ascoltare in un concerto e più di una volta, l'Incantesimo del Venerdì Santo, che è una pagina ispirata e stupenda, ma non ho voluto mai più sottopormi a quella gravosa, rischiosa e tediosa esperienza che dopo quarant'anni finiti mi fa ancora l'effetto di una tregenda sacra e che talvolta mi spaventa la notte come un incubo quando ho la febbre e sogno male. Insomma il Parsifal, a parer mio, è il più impotabile dei capolavori abortiti..
E ora che ho dato sfogo al mio giovanile risentimento posso liberamente riconoscere in Riccardo Wagner uno dei più alti geni del suo secolo. In ogni opera sua, anche nelle meno riuscite, si trovano pagine mirabili, così prodigiose, che sembrano dettate da un semidio in esilio o da un angelo ferito.
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