| Pubblicato su: | La Lettura, rivista mensile illustrata del Corriere della Sera, anno VIII, fasc. 5, pp. 392-397 | ||
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| Data: | maggio 1908 | ||
| Note: | Presentazione dell'articolo, con il titolo Un filoofo novelliere, apparsa sul Corriere della Sera, 9 maggio 1908, p. 2 |

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Giovanni Papini, il giovane e veemente pensatore, il filosofo ribelle a tutte le filosofie, ha scritto una novella paradossale e originale, fatta di comicità, di ironia, di grottesco e di tragico mescolati insieme. La novella si intitola L'uomo di mia proprietà, ed è il giuoco e lo sforzo d'un ingegno singolarissimo. La si può leggere nel fascicolo di maggio della Lettura, illustrata efficacemente dal pittore Costetti.
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SICCOME da molti anni ho cessato di tenere un diario, non potrei dire con esattezza da quanto tempo mi venisse dietro il corpo e l'anima di Amico Ditè. Probabilmente, data la mia distrazione, non mi accorsi in qual preciso giorno la mia seconda ombra — quella solida e relativamente viva — si decise a entrare nella scena poco illuminata della mia vita. Ma ciò non importa niente nè a voi nè a me.
Una mattina, uscendo di casa, mi accorsi d'essere accompagnato, a quella rispettosa distanza che non permette nessuna domanda di spiegazione, da un uomo di più di quarant'anni, vestito con un lunghissimo soprabito blù, allegro e sorridente, ma senza troppa esagerazione. Non avendo nulla da fare ed essendo uscito di casa unicamente per non sentire lo scoppiettare della legna nel caminetto, mi divertii a seguir con l'occhio il mio accompagnatore, per quanto — badate bene — egli non avesse proprio nulla di straordinario. Non supposi neppure un momento che egli potesse essere un agente di polizia: la mia completa mancanza dí coraggio fisico e la mia repuguanza per i cattivi odori mí hanno sempre impedito di offrirmi alla politica militante e la mia pigrizia, unita alla mia scarsa abilità manuale, mi ha salvato dal cercare nel delitto i mezzi del mio sostentamento.
Non potevo neppure immaginare che l'uomo vestito di blù fosse una specie di brigante cittadino deciso a derubarmi: la mia decente povertà era conosciuta in tutto il quartiere e il mio abbigliamento, più trascurato che disinvolto, dissociava dalla mia persona qualsiasi idea di benessere.
Nonostante ch'io non avessi nessun diritto ad essere seguito, pure cominciai a girare e a rigirare per le strade più contorte del centro della città, per assicurarmi che non m'ero ingannato. L'uomo mi segui dappertutto con aria sempre più soddisfatta. Voltai ad un tratto in una grande strada piena di gente e affrettai il passo, ma la distanza fra me e l'uomo vestito di blù rimase sempre la stessa. Entrai in una bottega a comperare un francobollo da tre soldi e lo sconosciuto entrò nella stessa bottega e comprò un francobollo da tre soldi; montai in un tram e il mio sorridente compagno saltò nello stesso tram quando scesi, l'uomo vestito di blù scese dietro di me; comprai un giornale ed egli comprò lo stesso giornale; mi posi a sedere sopra il sedile di un parco e l'altro si sedette sopra un altro sedile non lontano da me; trassi dalla tasca una sigaretta e colui ne trasse fuori dal soprabito un'altra e aspettò ch'io avessi accesa la mia per accender la sua.
Tutto ciò era nello stesso tempo gaio ed urtante. Forse, pensai, si tratta di un umorista senza lavoro che vuol divertirsi a mie spese. Mi venne pure l'idea assurda che si trattasse di uno scimmione incivilito e ammaestrato che non potesse più reprimere gli istinti profondi della sua specie, ma, fortunatamente, abbandonai subito codesta ipotesi, che non poteva condurre a nulla, e mi decisi a risolvere i miei dubbi col mezzo più spicciativo: alzandomi e piantandomi dinanzi al mio accompagnatore con aria di chiedergli senza nessun riguardo:
— Chi sei? Cosa vuoi da me?
Non ebbi bisogno di aprir bocca. L'uomo vestito di blù si alzò, si tolse il cappello, sorrise un momento con maggiore sicurezza e disse precipitosamente:
— Scusatemi! Vi spiegherò tutto, mi presenterò immediatamente: sono Amico Ditè. Non ho professione riconosciuta, ma questo non fa niente. Avrei molte cose da dirvi, ma finora... Avrei anche voluto scrivervi, anzi vi ho scritto due o tre volte, ma non ho l'abitudine di spedire le mie lettere. Del resto io sono un uomo comunissimo ed anche sano, per quanto sembri, qualche volta...
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A questo punto Amico Ditè si fermò titubante, ma riprese subito, come se sí fosse ricordato improvvisamente di una cosa che gli stava molto a cuore:
— Ma forse voi prenderete volontieri del cognac, non è vero? Oppure una goccia di marsala?
Tutti e due ci movemmo rapidamente, insieme, spinti dal desiderio di farla finita al più presto. Appena scorgemmo un caffè entrammo dentro in gran furia come chi va per bere e poi fuggire, mentre noi ci sedemmo in un cantuccio, accanto alla stufa, senza ordinar niente. Il caffè era piccolo, pieno di fumo e di vetturini e il cameriere — unico — aveva una faccia da borsaiolo, ma noi non avevamo tempo di sceglierne un altro.
— Io voglio sapere, cominciai....
— Vi dirò tutto, riprese l'altro, non ho nessuna intenzione di nascondervi niente. Il mio caso, purtroppo, è triste e difficile, ma ío dichiaro subito che ho la più grande fiducia in voi_ Eccomi qua: io sono vostro. Sono nelle vostre mani. Voi potete fare di me tutto quello che volete...
— Ma io non capisco...
— Vi assicuro che capirete tutto. Lasciatemi parlare. Non vi ho già detto chi sono? Il nome non dice niente, lo so. Ma io aggiungerò la mia definizione: io sono un uomo comune, un uomo terribilmente comune, che vuol fare a tutti i costi una vita non comune, una vita assolutamente straordinaria.
— Scusatemi....
— Ma io scuso tutto, signore, io scuserò tutto. Soltanto vi dichiaro ancora una volta che ho bisogno di parlare. La mia fiducia è tutta per voi. Voi sarete il mio salvatore, il mio padrone, il direttore della mia coscienza, delle mie braccia, di tutto me stesso. Io sono troppo savio, troppo per bene, troppo gentiluomo, troppo me stesso. Voi avete scritto tanti racconti, tanti romanzi ed io ho vissuto tanto tempo coi vostri eroi e lí ho sognati la notte, li ho desiderati il giorno, ho creduto di riconoscerli per la strada, e dopo, noiato e disperato, ho voluto ucciderli in me, scordarli per sempre...
— Vi ringrazio moltissimo, ma...
— Tacete ancora un momento, vi prego. Vi spiegherò perché ho pensato a voi e perchè vi ho seguito. Io dissi a me stesso qualche giorno fa: tu sei un imbecille, un tipo di tutti i giorni e di tutte le città, ed hai codesta malattia di voler provare una vita nobile, pericolosa, avventurosa come quella degli eroi dei poemi a venticinque centesimi e dei romanzi a una lira e a tre e cinquanta. Da te stesso non sei capace di procurarti una simile vita perchè manchi d'ogni forza d'immaginazione_ Non ti resta che cercare uno di quei padri di eroi straordinari e regalargli la tua vita perchè ne faccia ciò che vuole e la possa trasformare in qualche cosa di più bello, di più imprevisto, di più cinematografico...
— Voi vorreste dunque ?...
— Ancora un po' di pazienza, vi prego. Fra pochi minuti vi obbedirò in tutto e potrete farmi tacere quando vorrete, ma prima lasciatemi finire — sono ancora mio proprietario! Non ho da dirvi che questo: voi siete l'autore che ho scelto ed eccomi dinanzi a voi, per offrirvi la mia vita e i mezzi per aiutarvi a renderla interessante. Voi siete un cervello fantastico e potrete rompere la insoffribile usualítà delle mie giornate. Finora
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avete avuto a vostra disposizione soltanto degli uomini immaginari ed oggi vi dò un uomo vero, un uomo che soffre e cammina, e di cui potrete fare ciò che vi piace. Io sarò nelle vostre mani, non come un cadavere — cosa ne fareste? — ma come un fantoccio meccanico, un meraviglioso fantoccio parlante e ridente che comprenderà i vostri comandi. Da questo momento io vi faccio regolare donazione della mia vita e di una rendita annua di diecimila lire per tutte le spese che ci vorranno per rendere pittoresca e pericolosa la mia vita. Ho in tasca un atto di donazione già preparato... Cameriere, una penna! Non manca che la data e la vostra firma. Ditemi di si o di no senza complimenti, ma subito!
Per qualche momento finsi di rimettere, ma la mia decisione era già presa, Amico Ditè veniva incontro a uno dei miei desideri più antichi. Da molto tempo mi vergognavo dí inventare soltanto vite immaginarie e sognavo, in qualche ritaglio dì tempo, a ciò che avrei potuto fare se avessi avuto un uomo in sangue e nervi in mio potere. Ed ecco che l'uomo si presentava da se, accompagnato da un pacco di titoli di rendita!
— Non ho mai avuta l'abitudine — dissi dopo la mia finta meditazione — di mercanteggiare inutilmente e perciò accetto la vostra donazione, per quanto voi capite come sia grande la responsabilità della condotta di un'anima accompagnata da un corpo. Fatemi vedere un momento le condizioni del dono.
Amico Ditè mi porse il bel fascicolo protocollo, coperto di una carta grossa e grigia, ed io lo lessi in pochi minuti. La donazione era in perfetta regola. Con essa io diventavo padrone assoluto delle sostanze e della vita di Amico Ditè, col solo patto ch'io gli ordinassi via via ciò che doveva fare affinchè la sua esistenza diventasse eroica e romanzesca. Il contratto valeva per un anno, ma poteva essere rinnovato nel caso che Amico Dite fosse soddisfatto della mia direzione.
Apposi senza esitare la data e la firma e lasciai subito Amico Ditè, promettendogli per il giorno dopo una lettera o una visita e ordinandogli di non seguirmi, ma di bere qualcosa di spiritoso. Infatti, mentre uscivo, egli ordinò', col solito suo sorriso, uno dei più famosi bitters del mondo.
Quella sera non andai a letto con la solita noia delle altre sere. Avevo qualcosa di molto importante da pensare e potevo benissimo accettare una intera notte d'insonnia. Un uomo era diventato cosa mia, mia intera proprietà, e potevo dirigerlo, spingerlo, lanciarlo da qualunque parte volessi, sperimentare sopra di lui gli effetti di emozioni rare e le combinazioni di avventure di nuovo tipo.
Cosa avrei potuto ordinargli per il giorno dopo? Dovevo comandargli di fare qualche determinata cosa oppure conveniva lasciarlo all'oscuro di tutto e preparargli una sorpresa? Finii collo scegliere una soluzione che univa í due metodi. La mattina dopo gli scrissi che fino a nuovo ordine dormisse il giorno e passasse la notte fuori di casa, passeggiando in luoghi solitari. Lo stesso giorno mi recai ad una agenzia, affittai per sei mesi una piccola casa isolata nei pressi della città e assoldai due poveri giovani senza casa che stavano cercando il modo di essere ospitati a spese dei loro concittadini almeno l'inverno. Dopo quattro giorni tutto era pronto. La notte designata feci seguire Amico Ditè e quando fu in luogo deserto lo feci assalire delicatamente dai miei aiutanti e lo feci condurre, bendato secondo le buone tradizioni, alla casetta che avevo preso in affitto. Disgraziatamente nessuna guardia ci sorprese durante l'operazione e non fu fatta nesuna denunzia della sparizione di Amico Ditè, per cui mi trovai a dover mantenere per molti mesi due robusti uomini che non si contentavano soltanto di mangiare.
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Il peggio si è ch'io non sapevo cosa fare dell'uomo di mia proprietà. Avevo pensato, la sera stessa del dono, che un sequestro di persona sarebbe stato un ottimo principio di vita ricca di turbamenti, ma non avevo affatto riflettuto al seguito della storia. Eppure anche la vita di Amico Ditè, come i romanzi dei giornali, aveva bisogno di una continuazione immediata.
In mancanza di meglio ricorsi al vecchio espediente di mandare insieme con lui, nella casa dove l'avevo rinchiuso, una donna che gli si presentasse sempre mascherata e nuda e non gli parlasse mai. Non fu cosa facile trovarla e soprattutto ammaestrarla e non volle impegnarsi che per un mese. Amico Ditè, fortunatamente, era misogino e aveva più di quarant'anni, perciò non accadde niente - di quel che sarebbe potuto accadere in altri casi. Dopo quindici giorni vidi che bisognava cambiare il giuoco e Per mezzo degli stessi malviventi feci liberare il mio uomo e lo rimandai a casa.
Cominciai ad accorgermi che Amico Ditè non s'era mostrato affatto un Uomo comune mettendomi alla prova in questo modo. Chi mai altri, al dì fuori di uno spirito originale, avrebbe potuto immaginare una schiavitù tanto insidiosa?
Uno spadaccino di mia conoscenza consentì ad aiutarmi in questo difficile momento. Un giorno, mentre Amico Ditè beveva tranquillamente una tazza dí latte in un caffè di lusso, costui gli sì pose accanto, lo guardò male, lo urtò e appena l'altro disse qualcosa a bassa voce, lo schiaffeggiò due o tre volte, senza calore, come se non volesse fargli troppo male. Amico Ditè mi chiese il permesso -di mandare i padrini al suo offensore ed io mi affrettai a presentargli due amici miei che lo costrinsero, a malincuore, a incrociare la sua spada col mio complice. Amico Ditè non sapeva di scherma e appunto per questo, tirando all'impazzata e con gran violenza in principio, riuscì a ferire l'avversario abbastanza gravemente. Approfittai di ciò per fargli capire ch'era necessario il suo allontanamento dalla città, ma egli non volle saperne di stare senza dì me e preferì essere giudicato e condannato a tre mesi di carcere.
Credevo che in questo tempo sarei liberato dalla mia proprietà, ma passati appena pochi giorni sentii fortemente che il mio primo dovere era di far fuggire Amico Ditè. L'impresa pareva impossibile, ma, non badando a spese, riuscii a convincere due persone del disinteresse del mio atto e, grazie a un rapido trave¬stimento, Amico Ditè potè uscire a lenti passi dalla prigione poco prima che il sole spuntasse. Questa volta egli non poteva fare a meno di fuggire e io dovetti lasciare la mia casa, i miei lavori, la mia patria per proteggere la sua fuga.
Quando fummo giunti a Londra mi trovai estremamente imbrogliato. Non parlando affatto l'inglese e in mezzo a una città sconosciuta ero del tutto incapace di procurare delle avventure straordinarie al mio uomo. Fui costretto a rivolgermi a un detective privato che mi dette dei generici consigli in cattivissimo francese. Dopo aver studiato qualche giorno una buona pianta di Londra condussi Amico Ditè nei più malfamati quartieri della capitale inglese, ma non ci toccò, con mio gran dispetto, niente di male. Incontrammo i soliti marinai ubbriachi, le solite donne sguaiate e tinte, delle pattuglie di viveurs economi e rumorosi, ma nessuno ci molestò, credendoci forse appartenenti alla polizia, tanta era la nostra apparente sicurezza nel girare quegli intrichi di strade tutte eguali.
Pensai allora di spedire Amico Ditè, solo, nel nord dell'Inghilterra, dandogli soltanto venti o trenta scellini, oltre il biglietto per il viaggio. Siccome lui pure non sapeva niente d'inglese, speravo gli capitasse qualcosa di molto sgradevole,
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oppure che non riuscisse più a tornarsene indietro. Cominciavo oramai ad essere stanco di questa proprietà per la quale dovevo lavorare e sacrificarmi e aspettavo con rabbiosa nostalgia il momento di tornare alla mia buona città piena di caffè e di vagabondi. Ma dopo quindici giorni Amico Ditè tornò a Londra in perfetta salute, sorridente come sempre. A Edimburgo aveva trovato per caso un amico italiano — un violinista emigrato là da molti anni — che l'aveva tenuto con sè e l'aveva fatto divertire tutti quei giorni.
Ma non volli darmi per vinto. Avevo trovato in un giornale l'indirizzo di un piccolo club di studi psichici che cercava nuovi soci promettendo apparizioni autentiche e da non temer concorrenza e ordinai subito ad Amico Dite d'inscriversi e di frequentare tutte le notti le sedute. Per una settimana andò e non vide nulla, ma una notte venne da me dicendomi che aveva fatto da poche ore la conoscenza di un fantasma, ma che costui non gli era parso molto migliore degli uomini vivi e anzi era stato con lui stupido e maleducato sino al punto di portargli via il fazzoletto di tasca e la seggiola di sotto, di tirargli i capelli e di picchiarlo sulle braccia.
— In conclusione — mi disse — non ho trovato finora niente di veramente straordinario in tutto quello che avete fatto per me. Scusatemi se vi parlo con franchezza, ma dovete riconoscere che nei vostri romanzi mostrate un'immaginazione migliore e maggiore. Pensate un momento: un ratto, una donna mascherata, un duello, una fuga, un fantasma! Non avete saputo trovar di meglio di questi antichi trucchi del romanzo francese. In Hoffmann e in Poe ci sono cose ben più terribili e in Gaboriau e Ponson du Terrail più complicate. Non capisco davvero l'inaspettata decadenza della vostra fantasia. I primi giorni cominciai a fare tutto quello che voi facevate sperando di vi¬vere una bella vita, ma presto mi accorsi che la vostra vita era eguale a quella di centomila e immaginai che tutto il vostro genio fosse riservato alle persone dei vostri romanzi; ma ora comincio a dubitare anche di questo e con mio dispiacere son costretto a dirvi che se prima della scadenza del contratto non troverete qualche cosa di più serio per me, sarò obbligato a cercarmi un altro padrone.
La mia dignità m'impedì di rispondere a tanta ingratitudine. Pensai che da tanti mesi, dopo che avevo ricevuto in dono quella vita, non ero stato più padrone della vita mia e avevo dovuto interrompere le mie occupazioni e affannarmi a tro¬vare nuove combinazioni romanzesche e complici sicuri e lasciare perfino il mio paese e le mie
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stanze. Dal momento in cui ero entrato in possesso di Amico Ditè avevo dovuto sacrificargli la mia vita tutta intera. Io ero suo padrone secondo i patti, ma in fondo ero divenuto suo schiavo, l'impresario sempre all'erta della sua esistenza personale. Era necessario ch'io trovassi qualcosa che fosse più serio — com'egli aveva detto — di ciò che avevo immaginato finora e qualcosa in cui non ci fosse bisogno di complici. Dopo aver pensato con calma alcuni giorni mi decisi per una delle mie trovate pia felici e scrissi ad Amico Ditè questa lettera:
Carissimo Amico,
poiché - voi siete mia proprietà in seguito ad atto regolare io ho su di voi diritto di vita e di morte. Per conseguenza vi ordino di chiudervi in camera vostra, sabato sera, alle otto, di stendervi sul letto e d'ingoiare subito una delle pillole che vi mando insieme a questa lettera. Alle otto e mezza ne prenderete un'altra e alle nove precise la terza. Nel caso di non ubbidienza a questi ordini mi dichiaro fin d'ora perfettamente libero e irresponsabile rispetto alla vostra vita.
Sapevo che Amico Ditè non avrebbe indietreggiato dinanzi alla quasi certezza della morte. Malgrado la sua incontentabilità egli ci teneva ad essere un compito gentiluomo ed aveva un rispetto esagerato della sua firma e della sua parola. Mi provvidi di un forte emetico e mi tenni pronto per recarmi da lui poco prima delle nove, cioè avanti ch'egli avesse preso l'ultima pillola che avrebbe prodotto senz'altro la morte.
Per la sera di sabato avevo ordinato un cab per le otto precise, perchè io abitavo in una pensione molto lontana da quella di Amico Ditè. La carrozza non giunse che alle otto e un quarto ed io cercai di far capire al cocchiere che avevo molta fretta. Il cavallo cominciò, infatti, a correre con una specie di finto galoppo, ma dopo dieci minuti cadde malamente in mezzo alla strada. Siccome non era possibile rialzarlo subito pagai il cabman e corsi a piedi in cerca di un'altra vettura. Fortunatamente ne trovai subito un'altra e calcolai che sarei arrivato alle nove precise in casa di Amico Ditè. Cominciavo ad essere un po' impensierito, perchè la nebbia fitta rendeva difficile la circolazione e sarebbero bastati cinque minuti di ritardo per cagionare la morte del mio disgraziato uomo.
A un certo punto la carrozza si fermò. Cí trovavamo allo sbocco di una grande strada piena di automobili e di omnibus e il policeman fece segno al mio vetturino di fermarsi. Scesi come un pazzo dal cab e mi avvinai all'enorme policeman per fargli capire che avevo fretta e che si trattava della vita d'un uomo. Ma lo sgarbato agente non capì o non volle capire. Dovetti proseguire la strada a piedi, ma a causa della nebbia e della mia poca pratica della città, sbagliai e solo dopo dieci minuti di corsa affannosa mi accorsi che andavo nella direzione quasi opposta. Dovetti tornare indietro correndo sempre. Non mancavano che pochi minuti alle nove e feci uno sforzo inaudito per giungere all'ora precisa. Infatti alle nove e due minuti suonai alla porta della pensione e appena mi ebbero aperto mi precipitai nella camera di Amico Ditè. Il mio uomo giaceva disteso sul letto, senza la giacca, pallido e immobile come un cadavere. Lo scossi, lo chiamai — ascoltai il cuore, il respiro. Era veramente cadavere: la scatoletta che gli avevo mandata era vuota. Guardai, pieno di spavento, l'orologio ch'era accanto a lui, sul comodino. Segnava le nove e un quarto: il suo orologio andava innanzi a tutti gli altri! Amico Ditè era stato di parola fino all'ultimo. Avevo voluto procurargli l'emozione della morte imminente e gli avevo dato la morte — la morte vera, per sempre! Rimasi tutta la notte nella sua camera, istupidito dal dolore. La mattina mi trovarono col morto; pallido e silenzioso come lui. Sequestrarono tutte le carte e fu trovata anche la mia ultima lettera. Il processo fu rapido perché io rinunziai a difendermi e non feci conoscere l'atto di donazione che era in mio possesso. Sono stato alcuni anni ìn prigione e ho pensato molto a tutte le cose. Non mi pento di quel che ho fatto. Amico Ditè ha reso la mia vita più adatta a essere raccontata e non posso dire di aver fatto un cattivo affare per quanto, nell'anno in cui mi occupai di lui, io abbia speso qualcosa più delle diecimila lire che mi aveva dato.
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