Pubblicato su: Il Regno, anno III, fasc. 6, pp. 3-4
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Data: 22 aprile 1906

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Tutti gli anni, a Firenze, si riesce a fare una Esposizione, non perchè la gente ne senta proprio il bisogno ma perchè tutte le grandi città fanno lo stesso e Firenze, nella sua qualità di culla delle arti, tende a divenirne anche il feretro.
Queste esposizioni si fanno per cura di una Sociètà di Belle Arti della quale non occorre dir bene perchè pensa da sè a farsi l'elogio in testa al catalogo, ed hanno per caratteristica principale quella di rassomigliarsi tutte. Nel 1904 alcuni tentarono una secessione e fecero quell'Esposizione di Palazzo Corsini la quale, anche per mia volontaria colpa, levò tanto rumore nei dormitori artistici cittadini e l'anno dopo parte di quelli «alcuni» fecero un'altra esposizione alla quale dettero il nome di Arte Toscana e che meritò perfino gli articoli del cortese Diego Angeli.
Quest'anno, invece, ogni opposizione è spenta. La fiera di Milano ha richiamato i promotori dell'Arte Toscana i quali son già apparsi sul Naviglio col nome quarantottesco di Giovine Etruria e il campo fiorentino è rimasto all'antica e benemerita Società di Belle Arti.
L'Esposizione di quest'anno non è peggiore delle altre — tutt'altro. Direi perfino ch'è migliore se non avessi paura di mostrarmi troppo dolce. Ci sono, come sempre, le tre schiere abbastanza distinte:
l'armento degli insignificanti — le signore e le signorine che non hanno smesso ancora di fare i fiorellini gialli e rossi; i fabbricanti di scenette settecentesche o di donnine da scatole di fiammiferi; i disegnatori dilettanti capitati all'Esposizione per caso; gli eterni produttori di montagne alla salsa di pomodoro e di pecorelle annoiate ecc. ecc.
la compagnia degli illustri, dei celebri, dei classificati, premiati, medagliati, giubilati, i quali sono obbligati ogni anno a fare atto di presenza per l'onore della ditta; e finalmente
la banda dei nuovi venuti, di quelli che cominciano, che tentano, che cercano, che sono sconosciuti oppure cominciano a farsi conoscere, ma son discussi, osteggiati o canzonati.
Mi vergognerei se dovessi parlar di tutti. Dei primi è meglio tacere — dei secondi è bene dir poco — degli ultimi è interessante studiare le intenzioni e le prime vittorie.
Sbrighiamoci subito di colui che doveva essere, secondo l'oratore ufficiale, l'eroe di questa Esposizione: Cannicci.
Quando si entra nella sala che gli è destinata si sente subito che sì tratta di un morto: questa sala è un cimitero. Povero Cannicci, come ha fatto bene a morire! Era un uomo che non poteva godere del mondo. Tutti quei suoi quadri monotoni, poveri di colore, sbiaditi, con i
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cieli nebbiosi, uggiosi, sudici, grigi, con delle faccie idiote di contadine, c'ispirano una profonda pietà per colui che vedeva le cose a questo modo. Come aveva fatti gli occhi costui? Impastava i suoi colori con la cenere oppure era afflitto da incurabile noia? Sia pace all'anima sua ma si nascondano le confessioni di questa vita senza sole, senza immaginazione, senza cielo chiaro. L'hanno paragonato a Virgilio e facciano pure, ma nello stesso modo in cui si può paragonare a Eschilo il giornalista che racconta una delle tante tragedie della cronaca.
Fortunatamente il colore, a questa Esposizione, non manca. Lloyd, ad esempio, si è specializzato nel colore violastro e riempite di tonalità violette e rossastre le sue scene agresti e marine che hanno pure una certa grandiosità — Micheli ha un bel paesaggio con sfondo alpestre con dei verdi e dei grigi simpatici — Vianello ha un viale ombroso pieno di riflessi dí sole di non cattivo effetto — Graziosi una veglia contadinesca al lume del petrolio, con una macchia violenta di luce abbastanza ben fatta — Enrique Serra abbarbaglia con la sua scena di lago che dà l'illusione di una sensibilità acutizzata ed esasperata — il Fabbi ci offre dei cosacchi seminascosti da una polvere rossa — la signora Orlandini un robusto ritratto di signora con bimbo, in cui ci sono delle qualità di colore e di franchezza veramente maschili. Non mancano neppure le ricerche originali di colore un ritratto di bimba, seduta, jeratica, religiosa, di B. Berardenghi, ha degli azzurri e verdi di un effetto molto singolare. E non mancano neppure le stonature: ricordo, con mio gran dispiacere, un ritratto di bambina del prof. Zardo, con una veste blù di Prussia da far rabbrividire....
Come ci sono gli esageratori del colore così ci sono gli esageratori del disegno: non citerò che i quadretti-francobolli del celebre prof. Sorbi, che danno l'idea di una natura monotona, ridicola per la sua esattezza, vista attraverso a un microscopio. Vien la voglia di ammirare una testa pensosa di Oswald, ch'è li presso, ch'è mal disegnata ma che nonostante vive in un'atmosfera d'intenso sentimento. I francesi, per quanto abbiano esposto poco, dimostrano il solito buon gusto il reputato Lamy ha un ritratto di donna un po' lezioso ma dipinto con franchezza, e Abel Faivre una finissima testina di donna, con degli occhi azzurri che ricordano certi pastelli dix huiliéme siécle.
La scultura è poverissima: í soliti busti di donna o di giovane fatti nè bene nè male; un Sisifo di Basiano; una femmina carnosa e sensuale di Zambini; un gruppo di bestie e di contadini di Graziosi, volgare ma forte — una crudele caricatura del buon popolo delle campagne. Ma in fatto di scultura la terra di Michelangiolo non sa dare che dei modellatori per i negozianti di busti a un tanto la dozzina.
Ho lasciato da ultimo quelli che dovrebbero essere i primi: Ghiglia e del Chiappa, Giovanni e Romeo Costetti, Spadini e Martinelli. Ghiglia si presenta per il primo, appena entrati, con un insieme di ritratti e di disegni ch'è una bella prova della sua ostinata laboriosità. Le sue opere hanno un carattere di interezza, di definitività che suggestiona. Le magnifiche armonie di colore — per quanto troppo ripetute — aiutano l'effetto. Ormai, Ghiglia lo vogliono o no i suoi maggiori, è un grande ritrattista e un artista fatto. Il suo ritratto del prof. Fano è meraviglioso per intensità di espressione — la testa di donna al lume è qualcosa dí pieno, di succoso, di perfetto ch'esce dall'ombra come se volesse andare verso la vita. Io credo però che Ghiglia senta il bisogno di rinnovarsi e che cerchi una strada nuova. Questo suo periodo è stato bello ma continuando così, senz'altro, diventerebbe monotono.
Di fronte ai ritratti di Ghiglia vi sono dei disegni di Beppino del Chiappa, il quale, per la prima volta, si arrischia ad esporre. La sua personalità è ben lungi dall'esser formata e al suo ritratto di signora, che non manca di una certa abilità, hanno collaborato Ghiglia per il fondo e G. Costetti per la faccia.
I due fratelli Costetti sono fra i più interessanti consumatori di tele che io conosca. Giovanni Costetti ha fatto quello che Ghiglia vuol fare: ha tentato di rinnovarsi. Il quadretto di Mr. et M.me Mirmont, così bello di colore e così ben costruito, risente ancora della sua maniera passata, del suo periodo veneziano. Ma i due ritratti — di giovine e di bambina — indicano delle tendenze nuove. Il primo è nella sua ironica e un po' stanca eleganza, di tipo anglosassone; L'altro — una bimba bionda seduta in riva al mare con un frutto fra le mani — ha una testa finissima ma soffre degli azzurrastri confusi che formano il mare e il cielo. Sono tentativi di un'arte più moderna, più acuta, più nervosa, più libera dalle jeratiche influenze degli antichi, e dobbiamo esserne grati a G. Costetti anche se i tentativi non sono del tutto riusciti.
Il fratello suo, Romeo Costetti, è ormai prossimo, io credo, alla piena espansione del suo ingegno di colorista intenso e di poeta melanconico. Al suo ritratto di R. G. Assagioli nuoce un po' la rigidezza della posa e il tono giallastro delle carni ma quello ch'egli ha fatto al fratello Giovanni è, io credo, il più bel ritratto di tutta l'Esposizione. Quel tipo di giovane moderno, dagli occhi sprofondati, dalle carni pallide e lucide, dalla bocca rossa e sensuale, resta nella memoria come restano alcune faccie di una malinconica profondità di quel veronese Francesco Torbido che aspetta ancora il suo Ruskin. Romeo Costetti è già una personalità potente: s'egli potrà lavorare si parlerà molto di lui.
Armando Spadini, uno dei pochissimi fiorentini che sappiano far qualcosa di degno, espone ora per la prima volta. Due disegni finissimi, fin troppo diligenti e due studi di una bella sicurezza di toni, dimostrano ch'egli sta conquistando la sua maestria. Ma la cosa più interessante ch'egli ha fatto finora è certamente la testina di Miss Hackett di una finezza di esecuzione e di una delicatezza deliziosa che fanno pensare a un Leonardo giovinetto. Se Armando Spadini saprà congiungere al suo amore per le cose finite ed esatte una maggiore varietà d'immaginazione, riuscirà uno dei pittori più perfetti e completi della nostra generazione. Nella stessa sala che accoglie il ritratto di Miss Hackett bisogna soffermarci anche dinanzi a un ritratto di bambino del livornese Martinelli, un piccolo quadretto sottile e minuzioso, che ha della miniatura e dell'Holbein.
Tutti quelli di cui non ho parlato son pregati di ringraziarmi.
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