Articoli di Giovanni Papini

1905


Il Cinquecento italiano nei libri di Pierre Gauthiez

Pubblicato su: Il Regno, anno II, fasc. 22, pp. 12-13
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Data: 16 dicembre 1905


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   Molto tempo fa gli italiani insegnavano parecchie cose agli stranieri; gli italiani moderni, quando hanno bisogno di conoscere la vita e l'ingegno di quei maestri, debbono rivolgersi ai discendenti di quelli che i loro avi ammaestrarono.
   La Rinascita è stato un grande fatto della cultura europea e dì questo fatto sono stati autori prima dì tutti e sopra tutti gli italiani e nonostante se noi vogliamo sapere qualcosa di quel tempo della nostra precoce virilità intellettuale, avere un quadro vasto di quegli anni di meravigliosa e felice attività, bisogna chinar la testa sui libri del signor Burckhardt, del signor Geiger, del signor Voigt, o del signor Symonds. Per il Quattrocento, per quel secolo così affascinante e nefasto per le sue scoperte e i suoi sotterramenti, accade lo stesso. Senza far torto al dotto volume del prof. Rossi, bisogna pur dire che non c'è un libro così suggestivo, cosi ben fatto, così vivace come quello che il Monnier ha dedicato da pochi anni a quel fortunato secolo. Al Cinquecento sembra ora che si prepari la stessa sorte. Il nostro bel secolo classico, in cui la Rinascita disse con Michelangelo le più grandi parole e dove cominciò ad accasciarsi e immobilizzarsi nelle poltrone delle accademie, forma il più grande amore di uno storico e poeta francese; Pierre Gauthiez, il quale da più che dieci anni segue le traccie e i resti e i ricordi della vita dei piu singolari uomini di quel tempo. Pietro Aretino, Bernardino Luini, Giovanni delle Bande Nere, Lorenzino dei Medici — il letterato masnadiero, il pittore ambiguo, il principe condottiero, il retore omicida — lo hanno a poco attirato dietro le loro ombre. E Pierre Gauthiez, al quale il far romanzi ha dato l'amore delle belle avventure e delle tragiche sorti, ha spiato da lungi i fatti e gesti di quegli uomini ed ha fatto per ciascuno un amoroso monumento di parole.
   Giacché Pierre Gauthiez non possiede quell'amore della generalità e del concetto universale da cui sono animati gli storici tedeschi nelle loro ricostruzioni storiche. Vale a dire che dinanzi al Cinquecento egli non ha pensato di fare — come il Burckhardt dinanzi alla Rinascita — un'opera di insieme, un capitolo di filosofia della storia, ove a molte generalizzazioni servissero di contorno alcuni pochi fatti. Egli ha visto il Cinquecento italiano da individualista — sotto forme di personalità singole, di uomini distinti dagli altri uomini, di esseri vivi e attivi, che hanno rapporti fra loro, ma pure meritano d'esser guardati e studiati ciascuno preso a sé, visti «dalla cintola in sù» fuori dalla moltitudine di mediocri e di piccoli che li attornia.
   Ed ecco Pietro Aretino, dal multiforme ingegno, dalla molteplice fama: scrittore d'oscenità e di libri di devozione, libellista ricattatore e amico fedele di Giovanni dei Medici, giornalista adulatore e anima di artista in certe sue ore. Questo specchio del secolo nella sua febbrile versatilità e nella sua maturità già marcia; questo anticipato Voltaire riverito da Imperatori e insultato da femmine di malaffare; questo eroe del dilettantismo toscano e della sensualità veneziana, aveva diritto a qualcuno che ne ricercasse la vita e ne interpretasse l'anima.
   Ed egual diritto aveva il suo glorioso amico, Giovanni delle Bande Nere, al quale il colpo di falconetto di Alfonso d'Este impedì solo dl compiere il suo sogno:

   «Etre prince! ètre duc! ètre roi d'un quartier
Dans cotte apre Italie où l'univers entier
Se ruait„ comme les troupeaux sur l'herbe mure!»


   Giovanni delle Bande Nere, anima imperiale e degna di morte migliore, spirito antico per l'ambizione e lo stoicismo spinse all'estremo ciò che formava il fondo degli uomini di quei tempi: l'adorazione della potenza. Egli era uno di coloro che leggevano gli storici romani e pensavano sempre a Cesare: Quando, sul letto di morte, mentre stavano per tagliargli la gamba ferita, il vomito lo prese egli disse all'Aretino: I segni di Cesare! e fu lieto, forse di questa ultima somiglianza e soltanto dopo tornò in lui il cristiano: Bisogna pensare ad altra cosa che alla vita!
   Meno grande, ma più strano, fu l'altro Medici, Lorenzaccio, l'assassino assassinato, l'autore di commedie in versi e di tragedie reali, il regicida che veste d'ira civile i suoi dispetti privati, che uccide per aver perso un processo e per aver letto troppo Plutarco, e che dopo aver fatta una delle più originali congiure italiane scrive quell'Apologia che a giudizio del Leopardi è l'unica cosa di eloquenza sentita che abbia la nostra letteratura. Quello strano giovine solitario e silenzioso, che a diciannove anni meditava di uccidere il papa e a ventidue il duca; che leggeva avidamente Macchiavelli e Svetonio e confondeva nei suoi sogni di esaltato la ricchezza della sua famiglia e la gloria del tirannicida, non aveva trovato finora chi lo rappresentasse in tutta la sua misteriosità di Amleto meridionale, e in tutta la sua turpezza di cortigiano cospiratore, come ha fatto Pierre Gauthiez nel suo ultimo libro.
   Ed ora attendiamo da luì un altro volume — quello sul gentile leonardesco, creatore di Salomè inquietanti e di angeli delicati, di quel Bernardino Luini, al quale il Gauthiez ha dedicato già parecchi studi, che attendono di esser riuniti in volume. Così l'arte del maestro lombardo porterà un po' di luce e di grazia fra quegli uomini di violenza e di sangue che lo storico francese ha tratti fuori viventi dalle carte del Cinquecento.
   Egli è stato accusato, da qualche erudito incapace di trarre dalle sue schede bibliografiche qualunque opera di insieme ove l'arte sia necessaria al pari della dottrina, d'inesattezze storiche o di giudizi avventati. Ma egli che lavora da più di dieci anni negli archivi e nelle biblioteche d'Italia e ci ha dato già tre belle e piacevoli vite come nessuno dei nostri, dopo il Macchiavelli del Villani, aveva saputo fare, può esser lieto della sua operosità e sarebbe bene che gli italiani la conoscessero e la pregiassero di più.
   Un solo rimprovero ho da fargli io: quello di poco amore. Egli studia e conosce il Cinquecento ma non lo ama.


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Nell'epilogo al suo Giovanni delle Bande Nere egli esprime l'avversione per quella sorta di gloria. «Tout au food de ces gloires là, se trouve cette chose ignoble: l'adoration de la force. Je ne fermerai pas ce livre sans expliquer mon sentiment: j'ai etudié ce personnage mais j'e n'ai pas pour lui la moindre parcelle d'adoration. Le vraie role de l'ècrivain, c'est d'ètreindre aussi puissamment et d'aussi près qu'il peut le type humain, l'ayant choisi vigoureus et original. Il lui doit son attention, son labeur; moís nutre respect, notre sympathie ne sont point là. L'interet de l'artiste peut s'attacher à ces hommes, mais son estime est en dehors et au dessus de leur conquête» (344). Tutti questi uomini, egli dice, passano o non sarebbero niente oggi se non ci fosse lo storico a risuscitarli. E soprattutto, in quel secolo XVI, quale odor di cadavere e di «mauvaís liou»! Il Cinquecento, per il Gauthiez, eccolo: «un temps vil, des hommes sans foi nì loi, l'argent, le sang, la fourberie partout, la littèrature annoi lourde que l'art» (345).
   In tutta questa condanna sì sente un po' troppo il moralista, l'uomo cristiano e civilizzato del secolo XX. Per quanto il Gauthiez ammiri il Taine non è arrivato ancora ad avere dinanzi a una civiltà scomparsa la stessa freddezza che un naturalista può avere davanti a una forma morta. Egli disprezza la forza e disprezza ciò che passa. Questi due disprezzi traggono origine da valutazioni di moda tra i filosofi: cioè ch'è più importante lo spirito che il corpo e più importante ciò che dura che non ciò che finisce. Ma uno storico, un artista come il Gauthiez non dovrebbe seguirle. Il corpo ha le sue bellezze e le sue grandezze come lo spirito e le cose effimere possono essere così nobili e importanti come quelle eterne.
   L'adorazione della forza e le rapide glorie militari hanno la loro nobiltà e se noialtri, gens de cabinet, non sappiamo più goderle non è una buona ragione per sdegnarle quando le contempliamo in una delle più complesse ed energiche età di un gran le popolo.


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