Articoli su Giovanni Papini

2018


Maria Pia De Paulis Dalembert

Giovanni Papini: poesia e attività letteraria sul fronte interno

Pubblicato in: Cahiers de la Méditerranée, anno XXXXIX, n. 97/1, pp. 20-33
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Data: 15 décembre 2018



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  1. Unico tra gli intellettuali fiorentini che dall’agosto 1914 scrive su Lacerba perché l’Italia dichiari guerra all’Austria, Giovanni Papini, è riformato nel maggio 1915 per ragioni di non idoneità fisica e lo è ancora quando, dopo la disfatta di Caporetto, vengono richiamati anche i riformati. Lontano dal teatro di guerra, la sua vita si svolge nel fronte interno tra Firenze, Bulciano (Pieve Santo Stefano) e Roma.


  2. La sua passione bellicista essendo de facto amputata della verifica sul fronte, Papini compensa la solitudine e la delusione con un’intensa attività culturale in ambito nazionale e internazionale. Nella rubrica “Lettres italiennes” riservatagli nel Mercure de France fa conoscere il 1° ottobre 1916 la ricca messe letteraria prodotta in tempo di guerra. Esalta il genio italiano che nel fragore della battaglia mantiene pure le ragioni della creazione poetica, la cui densità spirituale evoca una certa consonanza con l’orfismo simbolista e apollinairiano. Letteratura e poesia non collidono con la guerra, anzi è proprio dalla fragilità in essa che scaturiscono le accensioni oniriche e i chimismi lirici del genio. Così scrive:

       Moins que partout ailleurs la littérature n’a chômé en Italie, pendant la guerre. Dans les journaux la disette du papier et la surabondance des nouvelles l’ont presque bannie: elle a résisté dans les livres et les revues. Je ne parle pas de la «littérature de guerre» toujours débordante et, en général, médiocre come dans tous les pays: bâclée à la hâte, fragmentaire, passionnée, elle se ressent profondément des défauts de l’improvisation 1.
    [ (trad.) Meno che altrove la letteratura rimase inattiva in Italia durante la guerra. Sui giornali la scarsità di carta e la sovrabbondanza di notizie l'hanno quasi bandita: ha resistito su libri e riviste. Non parlo della “letteratura di guerra” sempre straripante e, in generale, mediocre come in tutti i paesi: frettolosamente sciatta, frammentaria, appassionata, è profondamente affetta dai difetti dell'improvvisazione ]


  3. Tra le migliori voci della letteratura nata dal lavacro sacrificale del rito bellico, Papini cita nomi illustri della Voce che ha portato dal 1908 l’arte italiana al livello delle avanguardie europee. Nella sua lista si succedono Renato Serra, Alfredo Panzini, Scipio Slataper, Guido Gozzano, Vincenzo Cardarelli. Papini termina il suo elenco con la creazione innovativa di Ardengo Soffici, compagno di avventure letterarie e dall’estate 1915, come Giuseppe Prezzolini, partito volontario per la guerra col grado di ufficiale. Poiché afferma che la migliore letteratura ha resistito nei libri e nelle riviste, Papini conclude il suo excursus proponendo una mappa delle riviste letterarie che mantengono


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    «il culto della poesia pura», orfica, senza la quale quella guerra non ha senso. Così accanto alla fiorentina La Voce, operano nel 1916 a Oneglia La Riviera Ligure di Mario Novaro, a Napoli La Diana di Francesco Meriano, a Bologna La Brigata di Bino Binazzi, a L’Aquila Le Pagine di Nicola Moscardelli e Giovanni Titta Rosa. Sulla scorta delle riviste cui egli stesso ha dato un impulso filosofico dal 1903, per Papini quelle appena citate «témoignent de la vitalité de notre jeunesse littéraire durant l’orage effrayant déchaîné par les sinistres valets des Hohenzollern» 2.
    [ (trad.) testimoniano la vitalità della nostra giovinezza letteraria durante la spaventosa tempesta scatenata dai sinistri valletti degli Hohenzollern ]

  4. Se gli ufficiali-intellettuali danno vita nelle immediate retrovie ad una publicistica volta, oltre che a informare, a rinsaldare la virtù eroica delle truppe, nel fronte interno Papini sottopone al suo acume critico una produzione culturale complessa, stroncandone la facile retorica. A più di un anno dall’inizio delle ostilità, il 7 gennaio 1917 ne «Il fumo e l’arrosto» Papini ricentra il dibattito sul piano linguistico, ironizzando sulla scelta lessicale per scongiurare una confusione nella quale, alla stregua di imboscati, retinenti alla leva e neutralisti, potrebbe egli stesso essere coinvolto:

  5. Quelli che non vanno alla guerra hanno inventato il termine “fronte interno”. Siccome nel vocabolario italiano non c’è bandita che tenga e ogni pedone, ragguardevole o no, ha licenza di acchiappare le parole che gli vengon bene e di accoppiarle come gli gusta, nessuno può fare opposizione a codesta formula che dà una spolveratina di guerrierismo ai cittadini che vestono in grigionero invece che in grigioverde. A me, veramente, parrebbe che il “fronte interno”, volendo significare le retrovie del paese, le quali arrivano giù giù fino all’ultimo promontorio sicano è, trovandosi al di dietro del fronte vero, il contrario d’un fronte. Diciamolo groppa o schiena per non scendere più giù e rispetteremo meglio la lingua e la guerra italiana 3.

  6. Si ritrova in questo articolo la vis dello stroncatore dalla cui penna affilata vengono infilzati i signori della «groppa interna» che propinano ai soldati «letteratura pittorica e sentimentale». Dire il vero è il presupposto etico della scrittura di Papini impegnata a valutare le strategie politico-militari nelle alterne fasi della guerra, impegnata a esprimersi sulla necessità dello scontro, sulla durezza delle condizioni fisiche dei soldati, estranee alla «mediocre o risibile letteratura per uso interno». È alla luce dell’inquietudine della parentesi forzata alla quale è ridotto e in cui matura una riflessione amara e la scelta di dire la verità che si può intendere la chiusa polemica de «Il fumo e l’arrosto»:

  7. Io, se fossi ne’ panni di qualcuno dei ministri del grande ministero nazionale, cancellerei le smaccate e forbite letterature guerresche che irritano i bravi soldati invece di animarli. Si dirà che codesti brodoloni di rettorica sciaguattata servono per tonificare lo stomaco degli eroi della «schiena interna»? [...] Io, almeno, invece di far letteratura di guerra, mi ingegno a denunciare via via le successive imbecillità che fioriscono tra i miei concittadini e credo e so che di questo lavoro di ripulitura molti soldati mi sono riconoscenti.

  8. Il 2 gennaio 1918 sul Tempo di Roma scrive «Posto anche all’arte!» ove, qualche mese dopo la débâcle di Caporetto e a pochi mesi dalla fine del conflitto, rivendica la preminenza dell’arte e della sua espressione orfica, la poesia. Questa non è solo la voce più alta dello spirito, ma è anche l’essenza della patria etnico-letteraria mediterranea in nome della quale ha invocato la guerra:

  9. Troppa e troppo falsa letteratura s’è fatta sulla guerra negli ultimi quattr’anni [...]. Ma la letteratura guerresca che poco giova alla guerra, quando non le nuoce, pochissimo ha giovato e può giovare alla letteratura vera – ch’è poi, traducendo in parole serie e più nobili, l’arte e più specialmente quell’estremo culmine dell’arte


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    della parola ch’è la poesia. […] L’arte è una cosa seria, potentemente seria. È la ragione stessa di tutte le altre attività che ricoprono il mondo d’ingrati fragori. È l’ultimo fiore che scoppia, fragrante e sgargiante, su questa tundra spinosa della vita […] Né si dimentica, con questa fedeltà all’essenza stessa della vita […] quella che oggi e sempre dev’essere una delle ragioni prime della nostra legittimità nel mondo: la patria. Quando difendiamo l’Italia, quando offendiamo in nome dell’Italia, quando gridiamo di voler salvare quello spirito, quella civiltà, quel genio che furono e sono l’Italia non sacrifichiamo noi stessi e i nostri prossimi e discendenti anche per quello che fu, sostanzialmente l’Italia, cioè l’arte? […] La ragione suprema del destino italiano è nell’arte. Noi rappresentiamo nel mondo la scoperta e la perfezione dello spirito creatore – il quale, ancora una volta, è arte, è poesia, è canto. Noi non crediamo dunque di tradire quell’Italia per la quale viviamo e soffriamo, rifiutandoci di sbandire e scordare l’arte pura, la fantasia liberata, il pensiero disinteressato. Non abbiamo nessun rimorso. L’arte non è distrazione ma concentrazione in immagini di santa bellezza, non è depravazione di cattivi cittadini ma elevazione salutare verso quell’alto cielo di passioni depurate che rianima i coraggi e ritempra le volontà ben costrutte. Ridurre a serietà la patria in guerra non significa idiotificare le menti né rinnegare, con facile gesto, quei valori che soli giustificano, nell’assoluto, la guerra 4.

  10. In questi tre articoli che scandiscono i tre anni di guerra, Papini esalta la poesia pura; in altri si concentra sul dibattito relativo al conflitto: tali sono i due assi intorno ai quali prende forma la creazione di Papini relegato nella zona del fronte interno in attesa della vittoria. Da un lato, la solitudine di Bulciano nella quale elabora una sua opera poetica estranea al furore bellico che pure lo anima; dall’altro le beghe di Firenze e Roma legate alla sua collaborazione alla Voce di De Robertis, ai quotidiani La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Tempo, grazie ai quali orienta la riflessione sulla guerra improntandola a un pragmatismo frutto di una Realpolitik che in alcuni momenti viene scambiato per disfattismo. Un cospicuo carteggio con Ardengo Soffici al fronte contribuisce a ricostruire l’impegno di un intellettuale-poeta che, sconfessando la retorica del sacrificio per la patria, persegue una creazione dotata, oltre l’occasione documentaria, di tutti i crismi del monumento poetico 5, poiché definisce, tramite il filtro della tradizione letteraria, lo spirito e le ragioni profonde di quella Zivilisation apollinea e nel contempo orfica per cui l’Italia ha dichiarato la guerra alla Kultur tedesca, e legittima la sua precedente battaglia interventista.


  11. Il mediatore letterario: priorità alla poesia


  12. Dopo il 23 maggio 1915, mentre Soffici e Prezzolini partono volontari come ufficiali, Papini è riformato per anemia e debole costituzione 6. Cessata l’attività di Lacerba e rimasto solo in una Firenze che si svuota, egli si dedica alla gestione de La Voce, la rivista diretta da De Robertis dal dicembre 1914. Per avere le notizie dal fronte rinuncia alla campagna di Bulciano dove si stabilirà solo a partire dal 1o giugno 1916 per un bisogno di solitudine e conforto familiare, condizioni essenziali per le sue letture e scritture 7. Se nei primi mesi della guerra Papini collabora alla Nazione e al Resto del Carlino, quel che ci preme qui esaminare è la sua creazione poetica. Abbandonando sia l’autobiografia intellettuale 8, sia la novellistica fantastico-simbolista degli anni precedenti 9, egli adegua la sua creazione al volumetto Maschilità, pubblicato dalla Libreria della Voce nell’aprile 1915 10.

    Vi esalta il genio – qualità propria alla cultura mediterranea celebrata durante il periodo interventista e giustificazione della guerra contro la Kultur germanica – e in particolare l’intelligenza quale


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    motore di tutte le nazioni, salvacondotto di tutti gli eserciti, artiglieria di tutte le guerre. […] Intelligenza magnifica e miracolosa, creatrice del cielo e della terra. Intelligenza stupenda e tremenda, redentrice di tutte le umanità. […] Prima di tutto il genio – ma subito dopo l’intelligenza, ultima speranza per tutte le disperazioni, unica realtà nella infinita solitudine dei mondi 11.

  14. Maschilità illustra il progetto di Papini di combattere la “sua” guerra mediante la poesia. In questo senso pubblica sulla Voce solo prose poetiche e poesie. Quest’ultime, intitolate 1a, 2a, 3a… 17a poesia, seguono un ritmo bimensile fino al 30 aprile 1915; poi, con l’entrata in guerra dell’Italia La Voce da quindicinale diventando mensile, il ritmo di pubblicazione si fa più irregolare, in particolare dalla 9a poesia (15 luglio 1915) all’ultima, la 17a poesia, pubblicata nell’ultimo numero della rivista, il 31 dicembre 1916. Papini raccoglie le 17 poesie nella plaquette Opera prima pubblicata dalla Libreria della Voce alla fine di giugno 1917. Porchè il discorso di Papini sulla poesia durante la guerra copre dunque due anni e mezzo, lo riprenderemo più tardi, concentrandoci ora sulle prose poetiche che si alternano alle 17 poesie, e sul volume Stroncature pubblicato nel giugno 1916.

  15. Infatti, se nella seconda metà del 1915, Papini pubblica appena tre poesie (9a - 11a poesia) e nel corso del 1916 le ultime cinque (12a - 17a poesia), è perché, accanto ai suoi interventi sulla guerra, non rinuncia a una sua biblioteca di resistenza, cioè alle letture che, da una parte, lo costringono a seguire le attualità letterarie della Voce e, dall’altra, lo riportano alla temperie orfica e alla cultura classica. Inoltre, pensa a progetti letterari di maggior respiro da realizzare con Soffici o con altri collaboratori fiorentini 12, e a scrivere rare prose poetiche destinate anch’esse alla Voce. Eco dello smarrimento umano ascrivibile al rifiuto dell’arruolamento, tali prose vanno messe in tensione con le poesie che analizzeremo fra poco.

  16. La prima prosa, Salvazione, una sorta di autobiografia poetica ove l’io ora fuso nell’universo, ora scisso da esso perché destinato a una solitudine scontrosa e subìta, sulla scia del dilaniamento rimbaldino del «je est un autre», ma anche dell’artista saltimbanco di Palazzeschi, nonché del pascoliano pianto dell’universo, lascia intravvedere nel tessuto metaforico della confessione l’inquietudine per la lontananza dal fronte. La guerra allusa si sublima in un lamento più alto ove l’io vagola spossessato di sé nel vasto spazio:

    Ricordo ogni cosa e nello stesso momento e senza fatica. Perché tutto è saldato, oramai, fra me e le registrazioni. Che c’è di comune fra me e questo circolo friabile di sole? Io sto con me. Son disciolto, lontano, fuor dal sistema. Non appartengo al tuo giro. I tuoi pensieri non possono essere i miei. […] Sono in congedo assoluto, colla mia integrità purificata dalle tristezze del giorno per giorno. Mi butto, mi ripiglio, mi aggomitolo: sono elastico. Ora la mia mano agguanta la via lattea e ne fa una federa per il mio sonno di un’ora. Poi mi nascondo invisibile nell’oscurità – e sono un punto pieno d’anima e nulla più. […] Così come sorrido potrei anche piangere. Lagrime dagli occhi ciechi, ad una ad una, dal cielo, da quest’aria, lagrime diacce di morto, lagrime senza pianto dentro 13.

  17. La poesia fa sentire la presenza della guerra. Poesia e guerra coesistono anzi nel numero monografico che La Voce dedica a Renato Serra il 15 ottobre 1915. Papini vi evoca l’uomo che, animato dalla passione poetica e patriottica, non ha esitato a dare la sua vita 14. Senza retorica Papini dice la gioia di averlo conosciuto e non piange la sua morte perché Serra ha l’onore di vivere nel ricordo di tutti.

  18. All’inizio del 1916 Papini tiene al corrente della vita culturale a Firenze i suoi amici al fronte. In particolare, informa Soffici che, dal 9 maggio, è nella zona di guerra di Udine,


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    delle beghe letterarie della città, della vitalità dei giovani artisti: «Qui sono in gestazione altre due riviste: Il Circo (Meriano, Lebrecht, Bruno, Tommei, ecc.) e un’altra [L’Italia futurista] di Settimelli e compagni. […] M’immagino che costassù queste cose ti premano poco» 15. Inoltre, invita Soffici a mandare testi a De Robertis e gli invia i propri. La lettera dell’8 luglio è un esempio della frenesia di Papini nel dare e volere informazioni che lo rafforzano nel suo ruolo di mediatore di cultura nel fronte interno e del bisogno di compensare l’estemporaneità della guerra con una visione organica dell’arte nella sua accezione orfica:

    Cosa fai? E Prezzolini dov’è? Sempre a Vercelli? A me non scrive. Mi dissero che sarebbe venuto nel tuo battaglione. È vero? Hai visto la Voce? Che pensi delle cose di Cardarelli? Quell’Italia futurista è un porcaio imbecille. Hai avuto la Brigata? Le Pagine? Pancrazi è ferito […]. Ti ho fatto spedire le Stroncature. Vedi se riesci a scuoterti e a far qualcosa per la V[oce]. Bisogna assolutamente che vada fino in fondo e regga anche in questi mesi perché c’è intorno tutto uno sgallettare di pupi che stanno attenti e pronti a fregarci alla prima occasione. E la guerra è necessaria ma al di là della guerra c’è l’arte e lo spirito che per noi sono ancora più necessari 16.

  20. Nel frattempo, Papini onora i suoi impegni proponendo alla Voce prose di diversa natura: talvolta inattese 17, visto il contesto, talvolta paradossali 18, talaltra poetiche 19. Presso la Libreria della Voce esce nel giugno 1916 la seconda serie dei 24 cervelli 20, col titolo Stroncature 21. La cultura coeva, nazionale ed europea, sottoposta al suo sguardo impietoso, è tra i motivi del successo di Stroncature, paragonabile a quello di Un uomo finito. Quanto alla predilezione per la poesia quale risposta alla barbarie tedesca, è sintomatico il testo dedicato a Soffici, pubblicato dapprima sul Resto del Carlino 22, poi raccolto nel volume. A sottolineare la continuità del lavoro di europeizzazione della cultura italiana, Papini ritrova nell’amico i tratti salienti della poesia quale è venuta formandosi in Italia all’inizio del Novecento grazie alla loro comune frequentazione dell’avanguardia francese. Così, se in ogni lettera Papini incoraggia l’amico a inviare testi alla Voce, offrendo i suoi servigi per curarne la pubblicazione e assicurarne il seguito, ciò è dovuto all’indifferenza di Soffici nei riguardi delle guerricciole editoriali e culturali di Firenze, sensibile solo alla scoperta del popolo-soldato. Una distanza umana e poetica si profila: se Soffici concretizza la sua fede interventista a contatto con i contadini-alpini, Papini tenta di mantenere l’amico nell’orbita di una visione elitista dell’arte.

    Caro Ardengo, sei proprio acciucchito e sbalordito dalla gran macchina militare e dall’insigne mammaluccaggine de’ nostri capi? Tu, all’opposto d’Ercole, ti consumi fra l’armi. Io ti ho dipinto [nelle Stroncature] come sei e non c’è posto per la routine e la battaglia nei tuoi connotati. Artista nascesti, artista ti facesti, artista ti affermasti e volere o no devi seguitare. Levati un po’, se ti riesce, codesta ruggine reggimentaria di dosso e rinfrescato ormai da tanti mesi di snaturamento torna a lavorare per noi, per quei pochi che soli ti voglion bene e ti capiscono 23.


  21. L’arte è l’ossessione di Papini: non scrive né pensa se non in funzione di una poesia scevra da ogni narratività aneddotica, da ogni concretezza che lo riduca all’estemporaneità della guerra. Per questo durante il 1916, nella pace di Bulciano scrive:

    Ti puoi immaginare quale sia la mia vita di Bulciano: leggo (ho letto roba lunga: Bojardo, Mommsen, Iliade) – aspetto giornali – fumo e lavoro di voglia al mio romanzo che vien adagio ma bene. Eppure non ho nessuna voglia di tornare a Firenze. Ora che non c’è più nessuno, tutto fermo, la libreria un mortorio, la Voce agonizzante, Vallecchi negli impicci eppoi la miseria, il flagello del rettoricume, ecc.


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    Preferisco starmene in casa mia. Lavoro di più, leggo di più e non vedo facce odiose dintorno 24.

  23. Negli ultimi mesi del 1916 scongiura l’indifferenza di Soffici in merito alle attività culturali di Firenze, ripetendogli senza posa il suo rammarico per la chiusura imminente della Voce. A ciò oppone la maturazione di un’opera poetica che proprio nella rivista fiorentina prende forma tra il dicembre 1914 e il dicembre 1916.


  24. Opera prima: un testamento poetico fuori dalla guerra


  25. Alla fine di giugno 1917 esce presso la Libreria della Voce Opera prima. Venti poesie in rima e venti ragioni in prosa 25. È un’opera improntata a un «classicismo nuovo» (come vedremo tra poco), elaborata fuori da ogni spinta occasionale. Un’opera classica a doppio titolo: da un lato, estranea alle stravaganze formalistiche e spaziali delle tavole in libertà futuriste. Proprio nel senso di un superamento delle ricerche formalistiche dei futuristi occorre leggere le ragioni 4 e 5 delle venti ragioni in prosa, sorta di introduzione-dichiarazione di intenti rovesciata, posta nell’edizione del 1917 in calce alla raccolta poetica. Vi si leggono asserzioni ascrivibili a una evidente resa dei conti antimarinettiana:

  26. E le parole schiave della sintassi (ordinamento mentale) e della metrica (ordinamento musicale) son capaci di esprimere sentimenti e pensieri con una raffinata compiutezza che non si raggiunge di certo coi sostantivi isolati, coi verbi non flessi, col polverizzamento delle sensazioni, col latrîo onomatopeico che malamente pappagalleggia i rumori naturali, colle figurine malamente disegnate coi caratteri di stampa. […] Sotto e dietro codesto giocolamento e sfrenamento di ardiri dove il lavoro è più dei proti che dei poeti – ritrovi, senza nessuna meraviglia, una sbavacchiatura di sensazioni passe e trapasse, di notazioni squarquoie, di accoppiamenti tirati su a sorte 26.

  27. Dall’altro, anticipando il ritorno all’ordine rondista, Papini si appella a un classicismo inteso come libertà nella costrizione metrico-sintattica, la cui logica lirica è “altra” dalla logica discorsiva, iscritta nella tradizione poetica ottocentesca italiana ed europea:

  28. […] un Classicismo nuovo cioè senza modelli e precetti, che beneficierà di tutte l’esperienze, ricerche e conquiste dei romantici, parnassiani, simbolisti e futuristi – ma che sarà, in ogni modo, classicismo, cioè opera d’arte nuda, compatta, ipercosciente, costretta a una disciplina, sottomessa a salutiferi servaggi per ottenere potenze e libertà in più alto grado […]. Arte è, necessariamente, artificio […]. La novità è necessaria – che senza novità non c’è arte – ma novità effettiva e sostanziale non apparente e formale 27.

  29. Papini fa sua la poesia-musicalità invocata da Verlaine (la musique avant toute chose), le corrispondenze baudelairiane e la sacralità del verbo mallarmeano tendente all’Azur: la musicalità nasce dalla forza incantatoria del verbo, dalle risultanze fonico-ritmiche del concatenamento lessicale e sintattico, nonché dalla costrizione della rima. Figlia del simbolismo francese ma anche del verso libero fin de siècle, la poesia in rima (e non) di Opera prima ha il carattere battesimale di una insorgenza della purezza lirica covata per decenni a lato della creazione narrativa, delle stroncature e della pubblicistica che hanno reso famoso Papini: pur avendo iniziato a comporre versi nel 1888, egli aspetta il 1915 per pensare a quel «diario lirico» 28. frammentista che formano le 17 poesie pubblicate dal dicembre 1914 al dicembre 1916.


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  31. Elaborata nel periodo prebellico (dicembre 1914-maggio 1915) e bellico (giugno 1915 - dicembre 1916 fino alla sua uscita nel giugno 1917), Opera prima non può prescindere dalla guerra. Come si esprime questa, se si esprime, in un’opera di poesia pura? Se è assente, perché lo è, visto che Papini considerava come necessaria la guerra al nemico tedesco, e aveva dato largo spazio su Lacerba alla poesia della «guerra-attesa» 29? Perché rifiutare nel 1915-1917 una poesia sul carattere catartico e palingenetico del conflitto? Nei primi componimenti, la guerra lontana, non sperimentata, essendo, per la sua novità indicibile, fuori da ogni resa immaginativa, resta allusa, quasi che la storicità del momento non possa essere elusa dalla scrittura:

  32. Ma s’era così felici, sudati, affannati,
    brilli d’egoismo perfetto!
    Ci pareva ormai d’esser soldati
    con dieci medaglie sul petto.
    Se la montagna è apparecchiata
    di bianco fin sopra le cime
    noi, allo squillo dell’adunata,
    siamo, tra sentinelle, le prime.
    Al passo della banda militare,
    vestiti color d’erba passa,
    ci piace, a suon di scarpe, accompagnare
    le insistenze della gran cassa
    30.

  33. Ma la storicità si rarefà progressivamente a favore della centralità dell’io poetante ridotto in un letto d’ospedale ad attendere l’unica felicità solitaria, la morte diseroica del non-soldato. Il desiderio di annullamento nel luogo del non sacrificio per la patria (cui rinviano i deittici ossessivi e le parole di uso quotidiano) risemantizza il topos della «condizione ospedalizzata» 31 cui ricorre anche Guido Gozzano, altro escluso dalla guerra. Tale topos acquista nella 4a poesia un valore nuovo in quanto distilla la storicità mancata del poeta interventista nella pura transtestualità ove riecheggiano il nichilismo filosofico leopardiano e la metafisica atea (carducciana e nietzscheiana) di fine Ottocento:

  34. Vorrei, domani o più tardi, essere un fatto diverso
    qualunque, registrato da pochi giornali,
    […]
    Non desidero visite. Basta la donna in bianco
    Che porta il brodo al cannone di mezzogiorno.
    Sentirsi solo, alla fine. Ero stanco
    di questo andare su e giù, sempre in partenza o ritorno.
    La vita è più saputa in questi posti
    dove l’aria non puzza che d’acido fenico.
    S’ha il tempo di scandagliare, costi quel che costi,
    la trasparenza del nulla fenomenico.
    […]
    Nella colonna del giornale quotidiano
    (nati e morti, carattere tondo)
    vorrei, di nottetempo, piano piano
    lasciar di nascosto la storia del mondo
    32.

  35. Questo solipsismo banalizzato visto come spia di antisocialità e antistoricità conferisce una forte drammaticità al «personale autoritratto inquieto» 33 del poeta quale uomo rifiutato dalla guerra. Ma l’icastica drammaticità, invece di attingere alla metaforicità lussureggiante o analogica dannunziano-futurista, predilige le forme scarne che annunciano l’essenzialità dell’Allegria o degli Ossi di seppia e un certo ermetismo elitista:


  36.   27

    Mi pesano sotto le suola
    le strade camminate in società.
    […]
    Libero di più dura libertà
    amare se stesso, indiviso,
    e quasi cieco d’immensità
    specchiar nel sereno il mio viso.
    […]
    Io, tutto vinto da stanco ardore,
    bacio con gli occhi l’universo.
    Sveglio, in ascolto, si paga d’amore
    il solitario da tutti diverso
    34.

  37. Al posto della Storia si erge l’“io” immerso nell’aridità sconsolata prodotta dalla prima guerra di massa, che concede all’individuo, oltre il titanismo iniziale, solo il grido di un nichilismo carico di furore:

  38. Funesta perspicuità
    che in erba ha distrutto
    la mia quota d’umanità
    in contraccambio d’un arido tutto!
    […]
    Bruciata è la mia freschezza
    per sempre: perduto mi chiamo
    per sempre: mi glorio in altezza
    ma uomo né donna non amo.
    […]
    Più cara al mio cuore diverso
    l’indocile furia corrente
    de’ venti sul torbo universo
    35.

  39. A mano a mano che Papini procede nella redazione delle sue venti poesie, e quindi nel tempo della guerra, all’accordo panico con la campagna di Bulciano, al «fisico e sinestetico godimento, sospeso e circoscritto, stratificato e bergsoniano, in accordo atitanico, aspramente campestre» 36 che Marco Marchi sembra trovare nell’armonia tra l’io poetante e la natura in Opera prima, si dovrebbe piuttosto opporre, nella 14a poesia testé citata, la voce strozzata del poeta che al posto della «più grande Italia» che doveva sorgere dalla guerra mondiale, vede una no man’s land cui alludono i verbi dalla forte sonorità (stroppia, distrutto, bruciata) e le immagini tempestose e fiere (funesta perspicuità, fiero tempestìo, indocile furia, torbo universo). Per arrivare infine alla 19a poesia ove l’“io” è ridotto a pura parvenza e sagoma espressionistica:

  40. Sono il disamorato: croce di carne stracca
    che l’odore del giorno meno flagrante smaga;
    cesare senza fasti nel bigello rurale
    che sgannamenti o forsi raumiliato insacca;
    e per luoghi e pensieri dolciamaro divaga
    ubbidiente a qualunque libeccio o maestrale
    37.


    Da Opera prima a Giorni di festa


  41. Nei sei mesi che vanno dal dicembre 1916 alla fine di giugno 1917, Papini interrompe la sua solitudine di Bulciano con due soggiorni romani, il primo dalla metà di febbraio all’inizio di aprile 1917, e il secondo dal 10 aprile circa all’11 maggio 1917. Viene a Roma per discutere del lancio del quotidiano Il Tempo del cui progetto sembra convinto:


  42.   28

    Son venuto appunto a Roma un po’ prima per farmi un’idea personale e ho visto e saputo che si tratta di un affare molto pulito. Si può dire che il solo azionista è Naldi il quale è molto intelligente, non legato a nessun gruppo, e deciso a rimanere indipendente. Verrà, credo, un bel giornale e io son contento di dargli un carattere di vera intelligenza come l’intendiamo noi. Appena avremo le 6 o 8 pagine tu potrai scriverci e non te ne pentirai 38.

  43. Il direttore Filippo Naldi intendeva fare del giornale (che esce il 12 dicembre 1917) un organo d’informazione degli intellettuali antigiolittiani, e di Papini il responsabile della pagina letteraria. L’attenzione del Nostro si sposta così al fronte interno romano, la cui vita culturale non subisce sconvolgimenti. Il primo grande evento di carattere internazionale vede riuniti nella capitale i nomi di spicco dell’arte europea, quelli che Papini e Soffici avevano conosciuto a Parigi nei primi anni del secolo e nella primavera del 1914. Papini incontra molti artisti in licenza o esonerati dal servizio di leva: Luciano Folgore, Fortunato Depero, Vincenzo Cardarelli, Ricciotto Canudo, Giuseppe Prezzolini. Il 18 febbraio 1917 incontra Picasso e Jean Cocteau venuti al seguito di Diaghlev per allestire il balletto russo cubo-futurista Parade cui collaborano anche Michail Larionov e sua moglie Natalja Goncarova, le cui opere grafiche sono riprodotte su Lacerba nel 1913-1914. Papini incontra il ballerino russo Leonid Mjasin in casa del quale vede una mostra di pittura inedita (Picasso, Gleizes, Gris, Carrà); conosce poi lo scrittore russo Sergej Semenoff, impresario della compagnia russa, la scrittice Sidonie-Gabrielle Colette, e Igor Stravinsky 39. Insomma Roma vive la sua vita culturale senza pensare alla guerra: il patriottismo è escluso da attività teatrali caratterizzate da ricerche avanguardistiche e da un cosmopolitismo disimpegnato. I Balletti russi di Diaghilev e i Balli plastici di Depero esibiscono l’antipatriottisimo artistico tipico della cultura del fronte interno italiano, dove la guerra è percepita come una parentesi lontana 40.

  44. Tornato a Bulciano l’11 maggio 1917, Papini riprende a informare Soffici delle novità letterarie fiorentine e dell’imminente publicazione di Opera prima, sulla quale chiede all’amico le sue impressioni. Arrivato nella trincea del Rohot, con il nemico a pochi passi e la morte in agguato, Soffici propone un distinguo ove guerra e poesia vengono messe a confronto intorno alle tecniche poetico-plastiche della modernità. A lui che ha sperimentato l’arte visivo-allusiva dei Chimismi lirici nel 1916 e crede nell’autoreferenzialità della poesia, nonché nella spazialità plastica delle parole disegnate, le giustificazioni delle Venti ragioni in prosa sembrano inutili. Ma Papini il 25 agosto 1917 riconferma la sua convinzione dell’essenza verbale della poesia, cioè la musicalità, il ritmo, il gioco delle sonorità che non hanno bisogno delle spazializzazioni gratuite della modernità letteraria e artistica raggiunta nel primo Novecento. Il superamento delle innovazioni formalistiche dei futuristi comporta il ritorno alla poeticità verbale, spia della più vasta «reazione alla modernità» 41 che si sta profilando.

  45. Tale reazione cova nell’elaborazione segreta di due nuovi libri pubblicati nel 1918, a testimonianza della fertile creatività di Papini nei tre anni di guerra: L’Uomo Carducci e Testimonianze 42. Infatti, dal 1916 elabora molti testi che coesistono con gli articoli pubblicati sul Resto del Carlino e, a partire dal 12 dicembre 1917, sul Tempo di Roma. Secondo Roberto Ridolfi, poiché il progetto sul Carducci era stato accettato con entusiasmo da Oliviero Franchi, direttore di Zanichelli, Papini vi lavora per tutto l’inverno 1916-1917 interrompendolo in occasione dei due soggiorni romani del febbraio e del maggio 1917, e della preparazione di Opera prima. La sua azione culturale e giornalistica dal fronte interno si espleta in continuità con il mandato ideologico e intellettuale che lo porta a scrivere: «Io, non potendo combattere, scrivo – e combatto


  46.   29

    anch’io coll’idee, colle parole e coll’arte. Perché alla fin delle fini […], le sole cose che restano sono le parole»
    43.
  47. Di nuovo a Firenze dal 25 ottobre e preso dallo sconforto per la sconfitta di Caporetto, e poi di nuovo occupato dal terzo soggiorno romano dal 31 dicembre 1917 per il lancio del Tempo, Papini termina L’Uomo Carducci nei primi mesi del 1918. Si può affermare che sia l’uomo Carducci, sia le personalità presentate in Testimonianze rinviano, per somiglianza o per contrasto, al temperamento suo, «plebeo, sdegnoso, ringhioso» 44 come quello del poeta maremmano. Dal gennaio 1918 Papini vive quattro mesi frenetici a Roma, tra attività giornalistica, vita d’ufficio che lo distoglie dalla scrittura personale e atmosfera pesante per la rotta di Caporetto. A fine marzo 1918 si dimette; a metà aprile lascia Il Tempo e in giugno torna a Bulciano dove, ritrovata la pace della campagna, compone Giorni di festa 45, proseguimento ideale di Opera prima, poiché raccoglie prose poetiche e poesie scritte negli anni di guerra.

  48. «Mescolanza di ricordi e di notazioni e magari, d’abbozzi di racconti e di ritratti», dice Papini nel testo introduttivo Convenevoli, datato 9 settembre 1918, l’opera contraddice la distinzione crociana di poesia e non poesia rinvenendo nelle scritture “impure” un lirismo che innalza la creazione al di sopra della temporalità storica. Gravata del trauma appena scongiurato, la poeticità di Giorni di festa si costruisce sul contrappunto con la Storia che incombe su quegli «spiazzi e razzi di gioia, apparizioni inaspettate di un po’ di sole nella nuvolaia d’una sera minacciante, ritrovamenti di gioventù d’un’anima che s’accorse tardi d’esser giovane» 46. Il poeta si confonde con il personaggio del sordomuto, il cui isolamento fa dialogare l’antisocialità e il furore nichilistico già espressi in Opera prima con la tradizione letteraria del poeta quale essere destinato all’incomunicabilità e alla solitudine:

  49. Come te, io poeta, fui sordomuto e come te vo di porta in porta e alzo la mano e guardo negli occhi e nessuno mi ascolta e non c’è uomo che abbia misericordia per questa mia miseria. Da una mattina all’altra, quando c’è il sole e la neve si scioglie, traverso anch’io le strade nuove, dove uno può immaginare che il silenzio sia legge per tutti e mi consolo a dimenticare, e adoro le finestre chiuse da ferri e tendine, ed offro, ad ogni sguardo che incrocio, la mia costretta grandezza di taciturno 47.

  50. L’ossessione della fuga del tempo è un altro topos della raccolta che diffonde quel senso di fine ineluttabile sfiorata con Caporetto, ma la innalza al livello del nulla eterno foscoliano: «Ora il tempo ha ripreso tutto – l’ombra mangia la luce, il giorno mangia la vita e s’approssima la grande notte che non avrà più mattine» 48. Tuttavia la sublimazione della Storia orienta verso una recuperata, o quantomeno esibita, toscanità nel cui alveo Papini si iscrive facendone il vessillo metonimico dell’italianità da riscattare con la guerra. La toscanità si esprime nei paesaggi, nella natura, nei brevi tableaux en prose in cui prende vita un frutto, un insetto ingigantito dall’occhio scrutatore del poeta. L’esaltazione della pura meraviglia della natura, avulsa dalle contingenze del reale, viene celebrata nella sezione Bulciano, ove l’impronta toscana del paesaggio, da una parte, recupera la precisione lessicale, il gusto per la tecnicità espressiva ereditata dalle Myricae pascoliane. Si veda Sete:

    Non c’è un fiore a pagarlo: i convolvoli, appena aperti i bicchierini senza odore, diventan ciondoli cenciosi; i papaveri, ingrinziti e menci, spengono il fuoco del rosso e lo macchian di cenere; i grappoletti gridellini dei lavanesi, rilassati, si slavano; i radicchi celesti, ammosciti, si richiudono appena il sole comincia ad alzarsi; i capolini ranciati dell’arnica si afflosciano negli infiniti meriggi; le linguette bianche delle camomille ricascan giù, si nascondono sotto le coppelle, e lascian sole


  51.   30

    al sol le capocchie gialle risugate. Soltanto i cardi azzurri e i cardi zolferini drizzano alla vampa, maligne, ciocche e stelle di spunzoni 49.

  52. Dall’altra partecipa all’estetica della toscanità popolare abbozzata in vari quadri (per esempio I Mendicanti) e nei Manichini, personaggi dipinti da Soffici nel 1914 nella casa di Papini a Bulciano. Le poesie di Opera prima e gli squarci paesaggistici di Giorni di festa possono essere visti come espressione, negli anni di guerra, di una prossimità affettiva con Soffici e come rivendicazione estetica della civiltà italiana popolare, in chiave antitedesca. Il testo finale è una vera dichiarazione di poetica che celebra, oltre il genio di Michelangelo, la raffinata intelligenza dei grandi artisti toscani sulla cui scia si iscrive Papini, a convalida della Kulturalkrieg contro la barbarie tedesca:

  53. Non t’incresca se a te vo’ accompagnarmi
    per queste piagge, sotto il nostro sole:
    ché se tu battagliasti co’ tuoi marmi
    io pur guerreggio colle mie parole.
    E son anch’io poeta – e mi dispero
    per ridur la materia all’obbedienza
    e domo e sforzo ed alzo il mio pensiero
    per acquistar maschiezza ed eccellenza.
    […]
    Vedi quanto m’addanno e mi travaglio: guardami in viso: sono un tuo figliolo
    50.

  54. Per ragioni di spazio, in queste sede sono stati sottaciuti molti aspetti rilevanti della creazione letteraria di Papini durante la guerra. La focalizzazione sulla sua produzione poetica sciolta dall’occasione storica di cui è stato fino ad allora protagonista, a scapito dell’attività pubblicistica sul conflitto, mira a sottolineare la rottura di Papini rispetto al discorso dominante. La scelta di mettere in luce il versante orfico consente di cogliere la continuità con le problematiche filosofiche esperite nel primo Novecento, ma anche di individuare la prefigurazione dell’appello del sacro oltre la Storia. Con la Storia di Cristo, in cui culmina nel 1921 la «dinamica tra laicismo e religiosità», intesi da Giorgio Luti come le due facce di una stessa tensione verso un laicismo spirituale 51, si concretizzerebbe l’inappagato confronto con l’infinito in cui si incarna lo smarrimento scaturito dall’orrore della guerra nel complesso rapporto tra fede e politica, terreno e divino.







  55. NOTE



      31

    NOTE



      32

    NOTE






    RIASSUNTI

    All’inizio della Grande Guerra, Giovanni Papini è uno dei rari intellettuali riformati per ragioni di salute. Lontano da una guerra che ha voluto e difeso con forza tra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915, Papini rimane pressoché solo a Firenze e mantiene i contatti con i compagni andati al fronte, specie con Argengo Soffici, parlando delle attività letterarie e del dibattito politico che


      33

    svolge dalle pagine della rivista La Voce e dei quotidiani Il Resto del Carlino (Bologna) e Il Tempo (Roma). La sua passione per questa guerra in cui si oppongono civilisation e Kultur si traduce in una poesia estranea alla Storia attuale. La poesia orfica di Papini, espressione delle bellezze naturali toscane, caratterizzata da una musicalità pura, rappresenta un “io” immerso nella solitudine della campagna, al cospetto della vastità dell’universo. Essa esprime l’essenza del genio mediterraneo dal quale la guerra attinge significato e giustificazione.

    At the start of the Great War, Giovanni Papini was one of the few intellectuals to be declared unfit for service for health reasons. Between August 1914 and May 1915, away from a war he had ardently wished for, Papini, virtually alone in Florence, kept in touch with his friends in the trenches –among which Ardengo Soffici with whom Papini discussed the literary activities and political debates he was an active part of in Florentine journal La Voce and in two daily papers: Bologna’s Il Resto del Carlino and Rome’s Il Tempo. His passionate acceptance of a war, which in his eyes was to bring into conflict Latin Civilisation and German Kultur, produces a poetry devoid of any ties with present-day History. Lending expression to the beauty of nature in Tuscany in words of a striking musical quality, Papini’s orphic poetry presents the immersion of the self into the solitude of the countryside, confronted with its own smallness as it faces the greatness of the universe. This poetry gives voice to the very essence of the Mediterranian genius, from which the war drew both meaning and justification.


    INDICE

    Mots-clés : Giovanni Papini, Grande Guerra, poesia di guerra, pubblicistica bellica, Ardengo Soffici

    Keywords : Giovanni Papini, World War I, war poetry, war journalism, Ardengo Soffici


    AUTORE

    MARIA PIA DE PAULIS DALEMBERT

    Maria Pia De Paulis est professeur d’études italiennes à l’Université Sorbonne Nouvelle - Paris 3. Elle est l’auteure de nombreuses études sur la littérature italienne contemporaine. Ses recherches les plus importantes concernent la période de la Grande Guerre. Parmi ses publications récentes, deux ouvrages qu’elle a dirigés : Curzio Malaparte. Esperienza e scrittura (Chroniques italiennes, 1/2018) et Cahier Malaparte (Éditions de l’Herne, 2018).

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