Articoli su Giovanni Papini

1995


Giovanni Ragone

rec. Da Pierro ai Carabba. Avanguardie letterarie e nuova editoria del sud fra Otto e Novecento

Pubblicato in: Archivio Storico Italiano, vol. 153, fasc. 3, pp. 529-571
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Data: luglio - settembre 1995



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   1. L'editoria del sud giocò un ruolo molto importante nella formazione di una cultura italiana di avanguardia, tra ultimo ottocento e primo novecento. Una fase, caratterizzata da una forte presenza degli intellettuali meridionali sulla scena nazionale, ma anche — e questo è meno scontato allo stato attuale delle ricerche — da un notevole mutamento dell'assetto dell'editoria: alcune case editrici del sud assumevano infatti una funzione importante, se non decisiva, nel quadro nazionale.
   Su questa vicenda abbiamo finora a disposizione due capitoli indispensabili: il primo riguarda Benedetto Croce e Giovanni Laterza, il secondo l'editoria siciliana del secondo '800. Il resto del quadro è invece abbastanza oscuro; tanto da rendere ancora necessario riprendere le mosse dalle linee fissate dallo stesso Croce — il massimo protagonista di quella stagione — fin dal saggio sulla Vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900.
   Senonché è proprio l'orientamento crociano a mettere in ombra diverse esperienze e zone della cultura italiana, anche sul piano dell'editoria, come hanno parzialmente mostrato le ricerche più recenti 1. Proviamo allora a riempire qualche


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vuoto, a ricostruire qualche traccia di questa storia e geografia; dove i momenti più rilevanti sono con tutta probabilità la Napoli dei primi anni '90, e la presenza, fin qui quasi del tutto rimossa, del più importante centro editoriale della nuova cultura d'avanguardia: le edizioni Carabba di Lanciano.
   Croce, nel saggio sulla Vita letteraria, pubblicato sulla «Critica» nel 1909, in veste di «esperimento» di storia regionale della cultura, va alla ricerca delle radici napoletane della rinascita filosofica. E interessato, quindi, a ricostruire nella sua forza e debolezza la vicenda culturale e teorica della Napoli desanctisiana e post-desanctisiana dei primi anni dopo l'Unità. Più avaro di informazioni, conseguentemente, è il suo racconto della seconda fase della vita culturale napoletana post-unitaria, un racconto a sua volta dipendente da un distinto canone crociano, quello dei saggi poi raccolti nella Letteratura della Nuova Italia. Pure in una crisi della cultura filosofica e teorica — è la tesi sostenuta da Croce — il primato letterario nell'Italia dell'ultimo ventennio del secolo fu napoletano e meridionale, con Matilde Serao, Giovanni Verga, Luigi Capuana, Gabriele D'Annunzio narratore «verista» come figure maggiori; individualità contornate dallo stuolo dei veristi minori, e sostenute da un fervore di ricerca anche teorica: il giornalismo letterario, i nuovi istituti non universitari di cultura, il lavoro storico-folclorico.
   Napoli, la capitale, resta così al centro anche della seconda fase, più «letteraria», che precede e prepara la svolta, la rinascita filosofica. Sarebbe importante, a questo proposito, trovare un buon punto di osservazione sul mondo che Croce, sommariamente, descrive. I materiali «secondari» delle ricerche di storia dell'editoria, in particolare, tornano utili. Troviamo infatti in una Strenna una notevole testimonianza: è il racconto — o piuttosto il bozzetto, uno schizzo satirico, collettivo e autoironico - di una giornata napoletana del 1890, vista attraverso gli occhi dei frequentatori di quel milieu letterario. Siamo intorno al banco del libraio editore Luigi Pierro, poverissimo ex strillone, poi giornalaio, poi libraio,


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infine libraio-editore della nuova avanguardia napoletana 2.
   Su quel banco, al numero 76 di Piazza Dante, si vendono di primo mattino ai ragazzi che vanno a scuola le dispense illustrate dei Tre moschettieri e del Fabbro del convento, rifornite dagli editori «popolari» di Milano, soprattutto Sonzogno che a Napoli e nelle altre maggiori città del sud utilizza come suo emissario un letterato locale. Poi la clientela si dirada. E solo più tardi, durante la pausa meridiana delle lezioni all'università e del lavoro nei giornali, all'ora del caffè, che la libreria si affolla di letterati, giornalisti, artisti, studiosi. Arrivano Pasquale Turiello, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Vittorio Spinazzola. Ci sono i più giovani, collaboratori di una «Rivista» stampata dal tipografo Pietro Cola (e sono Andrea Torre, Vittorio Pica, Michele Ricciardi, Francesco Saverio Nitti); e il gruppo dei professori, alcuni dei quali deputati (Fortunato, Zumbini, D'Ovidio); e i fondatori della società storica (Capasso, il marchese Nunziante, il conte D'Aquino, Benedetto Croce — descritto nella strenna con una punta d'invidia, come un gran signore, ricco e infaticabile - e l'amico Salvatore Di Giacomo). Ci sono poi gli scrittori «da banco», i prolifici autori di versi o bozzetti a diffusione puramente locale, in vendita sulle bancarelle di Via Toledo; ci sono i letterati-giornalisti, come lo Scalinger, direttore del «Fortunio», e il capo redattore del «Pungolo», Federico Verdinois; e gli artisti, sempre più impegnati come illustratori per giornali e riviste. Infine, ecco gli altri editori di questo ambiente «all'avanguardia», come il siciliano Ferdinando Bideir e Aurelio Tocco.
   Più tardi, verso sera, sgombrato il campo dai letterati, le sartine comprano l'«Illustrazione italiana» del Treves o il «Paris Illustré», l'«Eleganza» o la «Moda illustrata», e le


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ultime dispense del «Romanzo in corso», sotto gli occhi dei tombeurs de femmes Vittorio Pica e Ferdinando Russo (qui gli stereotipi del bozzetto richiamano il demi-monde artistico che abbiamo imparato a conoscere nell'Education sentimentale flaubertiana).
   E sintomatico, anche scontando la deformazione umoristica che ci riporta alla Milano scapigliata di venti anni prima, quel raccogliersi di tutta l'élite intellettuale — di tutti quelli che scrivono «liberamente», per inventiva — intorno al banco del libraio editore; del resto la cifra dominante dei testi raccolti nella strenna rinvia costantemente ai generi e al tono della bohème giovanile: il racconto o i versi «audaci» (sul piano della «verecondia»), l'umorismo ancora tipicamente bozzettistico. Con un forte innesto su radici autoctone, napoletane, il clima che si respira da Pierro rinvia infatti a un'esperienza letteraria, giornalistica e editoriale che si era svolta altrove, soprattutto a Roma, negli anni precedenti; nell'esperienza dell'editoria «scandalosa» del Sommaruga. Matilde Serao, nume tutelare della strenna Pierro (a cui affida una rievocazione dei suoi inizi di scrittrice), viene di lì 3; e con la Serao aveva lavorato per il Sommaruga uno stuolo di scrittori napoletani e più in generale meridionali come Scarfoglio, Costanzo, Imbriani, Bonghi, Di Giacomo, De Zerbi, Capuana, Misasi; e il D'Annunzio-Sommaruga di Canto novo, dell'Intermezzo di rime, del Libro delle vergini, di Terra vergine, delle polemiche sulla verecondia 4. In quella Roma, la capitale del Piacere, l'eredità carducciana si era saldata con la nuova verve letteraria dei meridionali nella «Domenica letteraria» del Martini, a cui collaborava lo Scarfoglio (filo carducciano e feroce polemista contro la malvagia officina


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editoriale milanese di Emilio Treves, contro la nuova ondata di smidollati scrittori per il pubblico medio, contro Edmondo De Amicis) 5. E soprattutto nella «Cronaca bizantina», incunabolo dell'estetismo, e della coerente rivolta antimilanese e anti-Treves (pure destinata a essere riassorbita in breve giro di anni), si era ritrovata, accanto a Carducci e a Chiarini, l'élite della nuova letteratura meridionale: D'Annunzio, Scarfoglio, Serao, ma anche Verga e Capuana 6.
   Lo scritto della Serao nella strenna Pierro non è privo di interesse, anche come testimonianza di una riflessione teorica sull'arte narrativa. Esso ci riporta, esaurita la fase Sommaruga e trasferita la nuova avanguardia a Napoli, alla scelta netta (di tutto il gruppo) verso la narrativa, verso romanzo e novella; e a una necessaria ridefinizione — dopo la fase dell'editoria dello «scandalo» — del rapporto tra l'autonomia creativa del narratore e la mediazione verso il pubblico (verso il circuito del consumo esteso di narrativa che si va formando su scala nazionale). Lo spunto (gli anni di studentessa alla scuola normale, — la prima scrittura delle sue Leggende) permette alla scrittrice di impostare il ragionamento sul piano autobiografico. Siamo al tempo di un tentativo di sistemazione, e di riconsolidamento dei rapporti tra scrittura narrativa e verità, dopo la traduzione italiana (spesso non dichiarata) delle polemiche francesi su e contro Zola e il naturalismo, soprattutto attraverso il D'Annunzio della «Tribuna» (nella seconda metà degli anni '80), e dopo l'uscita del Piacere con Treves, attraverso la mediazione della Serao, nel 1889. Riprende corpo allora l'idea di una letteratura


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«di fantasia», anche tra gli scrittori meridionali alfieri della «verità», come mostra il Di Giacomo di Pipe e boccali 7.
   La Serao riconosce una tensione tra l'anima del meridionale, insopprimibilmente incline alla fantasticheria, e l'arte, che esige «uno studio limpido e schietto della verità»: ma «solo i grandi e piccoli dolori umani hanno bisogno di una storica, mentre quella nostra fantasia non interessa nessuno»; allora «bisogna salutare la terra della immaginazione, inoltrarsi nel reale paese della verità». La sperimentazione narrativa, dopo la fase del bozzettismo e della novelletta giornalistica degli anni '70, e dopo quella successiva, di marca Sommaruga, organizzata da un progetto editoriale basato sullo scandalo e sul romanzo-verità-scandalo, può tendere ora a una maggiore disciplina, a una curvatura più ordinata e flessibile di immaginazione creativa e «verità»: la Serao teorizza dunque un romanzo psicologico o «d'anime». Reintegrandosi per questa via nella macchina editoriale Treves, che già da tempo puntava oltre i circoli milanesi, e anzi, in vista di una unificazione vera e propria del circuito nazionale del consumo letterario colto, oltre i mercati locali e regionali; e anche gli scrittori del gruppo meridionale, sempre più scrittori «professionali», puntano sulla incorporazione nella prima editoria industriale e moderna del Nord.
   È tipico di questo rapporto non semplice, e contrastato, tra gli ultimi anni '80 e i primi anni '90, il caso Verga/Treves. Da una parte Emilio Treves, che richiede allo scrittore siciliano di «entrare in un ciclo», assicurando una produzione continua di romanzi e novelle, vincolata a tempi e canali di diffusione (e di marketing) definiti (attraverso la stampa a puntate e su giornali, o riviste, e poi in volume). In modo da istituire un rapporto continuo tra lo scrittore, la sua firma,


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il suo stile riconoscibile, e un pubblico, via via conquistato e nel tempo mantenuto fedele e in costante aspettativa dell'ultimo libro dello scrittore (e dell'editore...)- Dall'altra Verga, che resiste, che riconosce le proprie difficoltà costituzionali a seguire quella logica e quel ritmo (non riesce, in effetti, a scrivere quel «romanzo all'anno» che Treves gli chiede come cadenza minima) 8.
   Verga era quasi subito approdato al circuito editoriale del libro/periodico Treves, con Eva e con Storia di una capinera; abbandonandolo poi — forse non solo per questioni economiche — in direzione di Brigola, tra il 1874 e il '77 (con Nedda, Eros, Tigre reale); Brigola, del resto, era l'editore che tentava in quegli anni il contatto con l'avanguardia scapigliata e pubblicava testi scandalosi. Ma lo scrittore siciliano era ritornato, alla fine degli anni '70, alla macchina Treves, ormai organizzata sul modello francese; e genere tipico di quella macchina è la novella; così va spiegata la svolta di Verga: novelle sulla «Illustrazione universale» e sul «Museo di famiglia», i nuovi periodici illustrati; poi, sull'«Illustrazione italiana», novelle-verità sulla realtà sociale del paese che cerca una definizione, una descrizione di sé; e le novelle rusticane, (genere nato in Germania e in Francia), raccolte in volume come Vita dei campi, nel 1880. Infine scrittore ed editore si erano accordati sul progetto del grande ciclo dei romanzi, con ambizioni di successo seriale, e più precisamente con l'idea di provare a emulare in Italia la grande narrativa seriale francese, da Balzac a Zola. Progetto a lungo discusso, del quale è ben noto l'approdo, sintetizzato in una lettera a Treves: se tra i vinti Malavoglia domina la realtà più umile, con Mastro Don Gesualdo «siamo già un gradino più su, nella piccola borghesia di provincia». «La Duchessa della Gargantas vivrà a Palermo nelle alte sfere, ma che hanno anch'esse un colorito proprio. Siamo a Roma e fra la


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gente della Camera con L'Onorevole Scipioni, e infine a Firenze coll'Uomo di lusso. Lo stile, il colore, il disegno, tutte le proporzioni del quadro vengono a modificarsi gradatamente in questa scala ascendente, e avere ad ogni fermata un carattere proprio» 9.
   Eppure Verga, dopo aver proposto e immaginato un'impresa tipica del grande romanzo e della grande editoria francese, si sente soffocato da Treves, il quale pure gli offre ottime condizioni economiche (le stesse che in quegli anni '80 invano sta inseguendo D'Annunzio). Infatti cerca alternative, con Sommaruga a Roma, o con Barbèra a Firenze, ma alla fine torna all'editore-imprenditore, dall'89 in poi 10.
   Ancora più difficoltosa, negli stessi anni, è l'integrazione nel circuito di consumo Treves dell'anima «bizantina» (auspice la Serao). Come Verga aveva introdotto presso l'editore milanese l'amico Capuana, così è la Serao a proporgli, fin dall'85, il giovane D'Annunzio. Ma le cose non vanno, ed è Piero Barbèra a pubblicare il San Pantaleone nel 1886, mentre il gruppo sommarughiano sulla «Cronaca bizantina» lavora sull'ipotesi editoriale alternativa del libro di poesia come oggetto d'arte: programmaticamente oggetto artigianale, di «bottega» artistica, aristocratico, anti-borghese, costruito nel cenacolo di artisti e incisori di gusto preraffaellita (l'Isaotta Guttadauro, 1886, stampato autonomamente). Il rapporto con Treves può invece andare a buon fine quando D'Annunzio sceglie il romanzo, collegandosi (valorizzandola e in parte rovesciandola) alla struttura della mediazione colta, con il Piacere, 1889. Ma poco dopo L'Innocente gli viene rifiutato dall'editore, dopo i dissensi già verificatesi su passi poco graditi del Piacere, nel quale Treves trovava una mistura inaccettabile di Sade e di Tolstoi. Così il romanzo esce


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a Napoli: prima a puntate, sul giornale che inaugura l'esperienza più importante della avanguardia letteraria giornalistica, il «Corriere di Napoli», guidato da Scarfoglio e dalla Serao tra il 1891 e il 1892; e poi in volume con il Bideri (che stampa anche le Odi navali e la seconda edizione dell'Intermezzo). E anche il Giovanni Episcopo, prima pubblicato sulla «Nuova Antologia», esce in volume a Napoli, col Pierro, come le novelle dei Violenti.
   Con l'arrivo di D'Annunzio, insomma, l'esperienza dell'avanguardia letteraria, si trapianta a Napoli abbandonando la Roma bizantina e segna una evidente maturazione teorica verso il circuito giornale/romanzo. E sui giornali di Scarfoglio, il «Corriere», e il «Mattino» (fondato nel '92), che escono prese di posizione esplicite e importanti in questo senso, come quella dannunziana assai notevole sul «bisogno del sogno» 11. E da Napoli che passa, nei primi anni '90, attraverso la Serao e D'Annunzio, la scoperta della letteratura russa, in traduzione francese, in particolare di Tolstoi 12. D'Annunzio a Napoli si avvicina, apparentemente, al romanzo psicologico della Serao, fino a progettare una Vita di Gesù e una Madonna di Pompei, seguendo la nuova tendenza verso la religiosità e il misticismo (fogazzariana, e anche questa mediata dalla Serao; ma in Francia è il momento di svolta della conversione di Huysmans ...). E tracce di questa cultura e di questa tendenza dell'ambiente napoletano sono nella ripresa e conclusione del Trionfo della morte, che Treves questa volta accetta (1894): ma solo sopo il successo dell'Innocente, tradotto in rivista e poi in volume a Parigi, e ormai caso letterario di livello europeo.


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   2. Dunque la Napoli dei primi anni '90 si presenta come un centro estremamente vivace, in grado di raccogliere almeno una parte dell'esperienza degli anni «romani» dell'avanguardia (un'altra parte sta invece migrando verso Firenze). Eppure a Napoli non riuscirà a stabilizzarsi una impresa editoriale di rilievo nazionale. Le ragioni sono probabilmente nella tradizionale debolezza economica degli editori, particolarmente dipendenti dall'università, dalla adozione dei testi e quindi dal rapporto con i singoli professori; e nella forte concorrenza che non assicura loro lo stesso grado di autonomia sul piano del mercato universitario e scolastico di cui potrà disporre, ad esempio, Sandron a Palermo. Il mercato locale napoletano è sempre diviso tra almeno quattro o cinque, ognuno, in rapporto diretto, più o meno nello stesso circuito, con i circoli di diverso orientamento. E anche gli editori dell'avanguardia non sono certo degli intellettuali, come era invece Sommaruga nella Roma del decennio precedente; non sono in grado di progettare l'impresa, ciò che li rende ancora più deboli dei siciliani Sandron o Giannotta rispetto alla tendenza ormai prevalente fra i maggiori scrittori napoletani e meridionali a integrarsi nell'officina e nel mercato nazionale Treves. A quasi tutti, inoltre, se si esclude il Morano, manca quel rapporto organico con il nascente ceto politico unitario che aveva contraddistinto la fase ascendente degli editori fiorentini nel ventennio precedente (primi fra tutti i Barbèra).
   Agli inizi degli anni '90, Morano resta l'editore maggiore, che rappresenta bene sia il nuovo impulso verso le ricerche di storia locale e meridionale, sia la continuità dello strato degli universitari e del ceto dirigente post-unitario: ristampando tutto il De Sanctis, il Gioberti, il Leopardi, il Settembrini; impegnandosi nel mercato scolastico locale, con testi curati anche dal Torraca e dal Turiello (e vanno ricordate, inoltre, le Fame usurpate dell'Imbriani). Ma è Pierro, come ci ha mostrato la Strenna 1890, l'editore dell'ambiente letterario più avanzato, che oltre ai testi dannunziani già elencati,


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pubblica tutto Di Giacomo, e la critica letteraria di Schedilo e di Pica. Anche se nell'insieme, sul piano strettamente editoriale, le edizioni Pierro restano poca cosa rispetto alla maggiore vivacità, nella seconda metà del decennio, della Sicilia dei palermitani Sandron e del catanese Giannotta (che rinverdisce per l'ultima volta, nella collana dei Semprevivi, l'esperienza Sommaruga) 13. Si comprende, così, la ragione del giudizio negativo di Croce sugli editori napoletani.
   Il canone interpretativo del saggio crociano è netto: una cultura napoletana tra il '60 e 1' '80 viva, ma tutta chiusa in sé, e viva quasi solo nella sua prima fondazione filosofica (lo strato-Morano, rimasto però di fatto sterile). E di riflesso una editoria tutta orientata e specializzata, che soffre nel primo periodo post-unitario l'asfissia progressiva dei circoli intellettuali. Fino a una nuova fioritura di letteratura d'arte, legata ai nomi di Pica, Di Giacomo, Serao: «la nuova letteratura nasceva dunque a Napoli, principalmente sotto l'influsso francese, mutuato in parte da quello di Milano (Picadedicava il suo libro a Cameroni)... ma era cosa nostra, non solo per le intenzionalità, ma anche per il riferimento al Mastriani e al verismo pittoresco della generazione precedente. ... Il verismo italiano fu meridionale, dei napoletani e dei siciliani». Su questa rinascita artistica dovrà innestarsi, nella ricostruzione crociana, la rinascita filosofica. Dunque, nel quadro napoletano, l'editoria, che è per lui strumento subalterno, «sussidiario delle idee e della produzione di organica cultura», non poteva svilupparsi, negli anni della sua


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gioventù: sia per l'asfissia filosofica, sia per lo sviluppo quasi esclusivamente letterario della nuova avanguardia dei primi anni '90, poco incline a creare i solidi quadri della storia letteraria e filosofica nazionale, ai quali egli collegherà subito il suo progetto laterziano 14.
   In questo modo, Croce appiattisce sul verismo l'esperienza rappresentata da Scarfoglio, D'Annunzio e Pica, e ne sottovaluta la carica sovversiva. E proprio di qui, infatti, dall'esperienza del giornalismo e del romanzo, che parte, sulla scorta della più avanzata cultura francese ed europea, una riflessione dirompente sulle forme dell'arte e sul suo senso, nell'universo comunicativo ormai investito e unificato nazionalmente dalle forme del consumo, e quindi dalla mediazione dell'ideologia in un ciclo produttivo industrializzato. Come è noto, è Pica a importare dalle rivistine parigine, sull'onda del D'Annunzio articolista della «Tribuna», la terminologia (compreso lo stesso termine di avanguardia, in All'avanguardia, Pierro 1890), l'orientamento di gusto estetico (Péladan, i Goncourt), e soprattutto gli sviluppi teorici wagneriani e simbolisti. Pierro stampa nel 1892 una conferenza tenuta da Pica al circolo filologico: L'arte aristocratica. Il testo inizia con la risposta della Chimera alla Sfinge nelle Tentations de Saint-Antoine flaubertiane, simboli e immaginazione fondamentali per D'Annunzio: «cerco dei profumi nuovi, dei fiori più grandi, dei piaceri mai provati». Un'arte d'avanguardia, secondo Pica, deve essere inevitabilmente aristocratica, settaria, paradossale, oscura; e i canoni del realismo vanno ribaltati ora che «i commercianti di letteratura o di pittura o di musica sminuzzano le loro risorse per metterle a livello di tute le borse e di tutti i gusti». Tracciata l'identità (sperelliana) dell'artista che ama appassionatamente l'Ideale, ma che privo di ogni forza di volontà, ultimo frutto della degenerazione di una


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razza, incline al pessimismo, odia il preteso progresso, trova banali e grossolane le gioie della maggioranza dei mortali, e tende a fluttuare tra misticismo e sensualismo, Pica scopre infine nella lettura di Verlaine e soprattutto di Mallarmé la tecnica fondante dell'arte nuova. Essa consiste nel simbolismo e nella suggestione: «si ha il simbolo quando si ricorre ad immagini naturali per esporre qualcosa che appartenga al mondo spirituale»; «il simbolo lascia al lettore di diradare il mistero». Se il romanzo, che deve essere «analitico, numeroso, descrittivo, deve studiare la vita moderna in tutta la sua complessità, senza riserve e senza limitazioni», e soltanto qualche volta può permettersi di essere sintetico, la poesia sarà simbolista, sintetica, oscura. Il romanzo dunque, sarà positivista, e la poesia idealista, anche se poesia e romanzo potranno «scorazzare uno sull'altro» 15.
   Scoprendo negli ultimi romanzi di Zola i valori simbolici — sempre più dominanti sotto l'apparenza naturalista — recuperando al simbolismo la linea che va da Flaubert a Arébours di Huysmans, teorizzando una linea della suggestione che passa per la musica, per l'arte ispirata a Leonardo, per i racconti e le poesie di Poe, Pica prende coscienza del fondamentale passaggio all'introspezione che si sta realizzando nella parte più avanzata della nostra letteratura come nel resto d'Europa. Rovesciando il naturalismo, mostrandone la radice ideale, introspettiva, e sensoriale, questa avanguardia definisce un diverso rapporto con l'immaginario, nell'arte, nella prosa, nel romanzo, nel dramma, in una decisa soluzione di continuità con le forme consuete del medio ottocento, descrittive-novellistiche e tipiche di un giornalismo ancora «esplorativo» o umoristico. È la strada per il romanzo simbolico e di idee, e poi verso la sperimentazione wagneriana tentata dal D'Annunzio negli anni successivi, dalle Vergini delle Rocce al Sogno di una mattina di primavera, alla Gioconda,


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alla Gloria (rappresentata a Napoli nel '99), fino al Fuoco.
   Ma attraverso una nuova migrazione, da Napoli verso Roma («Il Convito», ancora con Scarfoglio e D'Annunzio, nel 1895-96), e poi verso Firenze (dove D'Annunzio si stabilisce nel '98), la linea decadente, nata bifronte (i carducciani e la fioritura letteraria meridionale) torna a abbandonare il Sud e si sposta, auspice Angelo Conti, nel capoluogo toscano, a gettare le basi di una nuova cultura «d'avanguardia».
   A ben vedere, anche la grande fioritura editoriale che si verifica nel sud del primo quindicennio del novecento poggia su questa divaricazione nella cultura «nuova» (e anti-milanese), tra il polo napoletano di partenza e quello fiorentino d'arrivo. Già nella crisi sociale e culturale e sociale tumultuosa di fine secolo i due poli dialogano, ma entrano anche in conflitto: Napoli, il centro della rinascita filosofica crociana, e Firenze, dove l'arrivo di D'Annunzio e l'influsso di Angelo Conti (attraverso il «Marzocco» di Angelo Orvieto, stampato da Paggi, dove faceva le prime prove Corradini), preparano una rottura generazionale, una «rivolta» della cultura. Sono i giovani, i circoli studenteschi dell'Istituto di studi superiori, i giovani artisti, a costituirsi a Firenze in un gruppo che riprende, in un contesto notevolmente mutato dalla stampa e dalla politica di massa, non pochi dei tratti culturali e ideologici delle avanguardie di dieci e venti anni prima 16. Con un tratto nuovo, che accomuna in effetti sia il circolo crociano che quello dei fiorentini: la volontà, la «missione» (presto teorizzata esplicitamente) di costruire una mediazione con un pubblico colto più largo; all'inizio, subito, è solo spia di una volontà egemonica: più tardi, si tradurrà in un modello vero e proprio di editoria «di cultura». Si spiega così la ricerca, da parte di entrambi i gruppi, di editori piccoli ma indipendenti, coraggiosi, disposti a investire in


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operazioni innovative, ed esterni al circuito nazionale colto non scolastico, che è quello della letteratura narrativa, inventato e sempre più monopolizzato (a livello del gusto medio alto) da Treves. E i «loro» editori, sia i fiorentini che i napoletani li troveranno soprattutto in provincia e nel sud.
   Nasce su questa base con il Novecento una nuova editoria meridionale, innestandosi sulla forte crescita dei livelli di cultura nel primo quindicennio «giolittiano», su una giovane generazione che in tutto il paese arriva a ingrandire il circuito colto, partendo da una tradizione familiare di piccolissima borghesia, e si dedica a sua volta a mestieri, a lavori intellettuali. È la nuova editoria «di cultura», che presenta, per ogni impresa, tratti inconfondibili; che corrisponde, in tutto, a un «progetto»... Sono finora abbastanza note le linee di fondo dell'impianto crociano della Laterza, subito canalizzate lungo le due «grandi narrazioni», i due grandi dissodamenti programmati dalla «Critica»: la storia della filosofia italiana nella seconda metà dell'ottocento, la storia della letteratura italiana nello stesso periodo. Su una traccia analoga, a riscontro, si sviluppa il rapporto dei crociani con le edizioni Sandron di Palermo, a cui è affidato soprattutto il progetto del rinnovamento pedagogico e scolastico. Meno indagato, ancora da ricostruire è invece l'altro versante, quello che porta a un trapianto delle esperienze di avanguardia fiorentine — i letterati/filosofi del «Leonardo», del «Regno», di «Hermes», della «Voce», dell'«Anima» — in un'impresa editoriale di grande rilievo: la Carabba di Lanciano. Un'impresa fortemente innovativa, la prima — credo si possa affermare - che sperimenti una mediazione della cultura, dell'ideologia e della percezione letteraria dell'avanguardia direttamente nel mercato, verso il grande pubblico. La casa abruzzese, dopo la Laterza, si pone infatti come un nuovo modello di editoria letteraria e di cultura, con notevole impatto soprattutto tra il 1909 e la guerra (prima — insomma - del definitivo saldarsi dei rapporti tra i fiorentini — Papini in particolare — e Attilio Vallecchi). Influenzando nettamente


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il quadro nazionale, sia della cultura che dell'editoria, provocando risposte aggressive su entrambi i piani, preparando il terreno per altre linee editoriali di tipo nuovo, di gusto tipicamente primo-novecento.

   3. La casa editrice Carabba, quando entra in contatto con l'ambiente fiorentino, ha già una storia (anche se è storia minore e tipica di tutte l'editoria meridionale fin de siècle). Rocco Carabba, nato poverissimo a Lanciano nel 1854 (anche se ben presto si imparenta con una famiglia rilevante per censo e cariche pubbliche, e attraverso questa con gli Spaventa), giovanissimo tipografo, sembra inizi la sua attività di piccolo editore nel 1877 stampando testi scolastici per il mercato locale. Ottiene un minimo di rinomanza con la seconda edizione modificata di Primo Vere nel 1880, edita a spese del padre di D'Annunzio, e — sempre nel 1880 — con i primi versi di Scarfoglio. Seguono raccolte di storia e folclore regionale, mentre inizia un primo collegamento con Napoli, attraverso la Biblioteca giuridica del Foro italiano. Raggiunta già negli anni '90 la dimensione di editore scolastico e specializzato, e il primato nella sua regione, Carabba si afferma con piccole collezioni di libri per fanciulli; non irrilevanti, comunque, perché comprendono gli autori maggiori del genere e tra questi Capuana, uno dei pochi tra i grandi scrittori ad aver scoperto e praticato un destinatario e un settore di pubblico stabili e raggiungibili facilmente attraverso i diversi livelli del circuito editoriale, sia nazionale che regionale, a costi limitati ed alto rendimento (i libri per ragazzi si vendono dal libraio, anche di provincia, senza bisogno di molte spese di distribuzione e di grandi lanci di stampa; e durano nel tempo). Del resto, il momento del vero lancio sul mercato nazionale coinciderà per la Carabba con l'uscita della traduzione di Piccole donne della Alcott, nel 1908. Ma è soprattutto il successo, anche fuori dell'Abruzzo, di alcuni testi scolastici, in particolare della Grammatica italiana della lingua viva di Cesare De Titta (uscita per la


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prima volta nel 1902, e ristampata per un quarantennio, un testo scritto in polemica con i puristi dell'epoca, in un momento di svolta anche linguistica), a garantire i margini economici e il commercio con le principali librerie italiane, che sono necessari per tentare carte più ambiziose. Il segnale di un rapporto con l'ambiente culturale napoletano e romano (avrà avuto un seguito il primitivo contatto con D'Annunzio e Scarfoglio?) lo ritroviamo invece quasi agli inizi della casa, nella prima versione italiana (in prosa) delle poesie di Poe, nel 1892; la figura-chiave per questo rapporto sembra negli anni '90 Salvatore Di Giacomo 17. Diretta dallo scrittore napoletano, inizia infatti nel 1895 la collezione dei Santi nell'arte e nella vita, sull'onda della riscoperta delle tradizioni locali — Di Giacomo e Croce sono collaboratori della Società storica — ma anche della svolta mistico-religiosa in corso sul piano letterario, dalla Serao a Fogazzaro. Pochi libri, lungo un quindicennio, in questa collana, ma di alto livello tipografico: da Matilde Serao a Ferdinando Russo, Nicola Misasi, Diego Angeli 18.
   Rapporti con Napoli, dunque, ma anche con Roma. Qui si à trasferito come bibliotecario alla Nazionale l'abruzzese Domenico Ciampoli, ex professore universitario, studioso di filologia, folclorista, comparatista e appassionato di lettera


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straniere — in particolare di letteratura slava —, in passato scrittore di novelle e romanzi sull'Abruzzo, nella stagione sommarughiana e verista. Il Ciampoli pubblica con Rocco Carabba i Saggi critici di letterature straniere nel 1904, ed è probabilmente un tramite importante dell'editore abruzzese, che proprio a Roma entra in contatto con Bellonci, e con Pirandello, del quale stampa il notissimo saggio sull'Umorismo, nel 1908 19.
   Sempre nel 1908, troviamo la Carabba in contatto con i fiorentini. Mancano notizie certe, ma posso fare l'ipotesi che inizialmente il tramite sia Giuseppe Antonio Borgese, siciliano presto trapiantato a Firenze, in ottimi rapporti con Croce e i napoletani, già direttore di «Hermes», e dal 1907 caporedattore del «Mattino» di Napoli. Del resto, nelle nuove edizioni di Riccardo Ricciardi a Napoli, dal 1907 in poi (ed è notevole la quasi contemporanea fortuna di Laterza, Ricciardi, Carabba come editori «nuovi»), stampano i loro libri i giovani del gruppo fiorentino, o meglio quelli tra loro che sono in rotta con Croce: soprattutto Borgese, Prezzolini e Cecchi 20. Il ruolo decisivo, comunque, fino alla stipula dei


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primi contratti, è quello del primo figlio di Rocco, Gino Carabba, attivo nei circoli fiorentini della Biblioteca filosofica, fondata da Papini e dai suoi amici, e sicuramente in contatto con il giovane filosofo già all'inizio del 1908 21.
   Giovanni Papini, il primo vero e grande partner della Carabba, sta lavorando alla traduzione dei Principi della conoscenza di Berkeley per la nuova collana laterziana dei Classici della filosofia moderna. Ma si trova, da qualche tempo, alla ricerca di uno spazio autonomo nell'editoria, anche e soprattutto per trovare una fonte certa di reddito, senza dover dipendere dagli impieghi di redattore-capo delle riviste (Corradini, finanziatore del «Regno», gli aveva assicurato negli anni precedenti uno stipendio).
   Ma chi è, nel 1907/1908, Papini? Studente e poi autodidatta, come tutto il suo gruppo, nella Firenze di fine/inizio secolo, luogo di filiazione dall'ultima generazione decadente alle nuove tendenze nazionaliste e bergsoniane, poi pragmatiste e attiviste, il giovane filosofo era passato attraverso l'estetismo, il culto leonardesco, la riscoperta della nazione «latina»: i miti «obbligati» dei circoli letterari di ascendenza dannunziana e barrèsiana orientati prima intorno a Corradini. Insieme a Prezzolini, Soffici, De Carolis, aveva costituito un circolo filosofico, letterario e artistico, presto irrobustito dalla collaborazione di Vailati. Si teorizzava la rivolta


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ideologica e filosofica del «partito delle scienze» contro il positivismo erudito, universitario e socialista: per una nuova estetica e una nuova cultura e anche per una nuova politica. Il punto di unificazione tre apporti e teorie di differente origine e segno era nell'elaborazione di Papini l'idea di un rapporto agonistico tra soggetto e realtà: un soggetto che entra in campo armato di tutte le sue motivazioni spirituali, di tutto il suo pensiero, e affronta secondo questo canone, politicamente non dialogico e antideterministico, la realtà e la tradizione.
   Vale la pena di notare a questo punto che Napoli e Firenze, pur legate da un collante politico che consiste, sempre più, in un'ideologia fluttuante della «rinascita nazionale», esprimono tendenze nettamente divergenti. Da Napoli, Croce e Gentile, con le loro imprese editoriali non napoletane (la Laterza e più limitatamente la Sandron) seguono un programma compatto e facilmente leggibile dai destinatari: la ricostruzione di una linea idealista, la riscrittura e rivisitazione storico-filosofica di una tradizione italiana di pensiero e d'arte. Un'operazione che ha per interlocutori privilegiati gli ambienti colti e di scuola, i professori e poi, attraverso il «Giornale d'Italia» filonazionalista, una ulteriore mediazione verso l'opinione pubblica borghese alla ricerca di una organica renovatio della vita nazionale, di nuovi, ma solidi e certificati riferimenti. Per Croce, come è noto, la ricerca dell'egemonia passa soprattutto da una solida ed organica produzione storica e critica: «l'editore è strumento indiretto di cultura», la cultura si fa in primo luogo nelle riviste, che hanno circolazione ristretta; l'accento non è sulla mediazione con un pubblico e tanto meno con un ciclo editoriale e di mercato; conquistato un buon numero di lettori «forti», la diffusione più larga verrà poi, e farà premio la solidità di impostazione e di scuola 22.


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   Tutt'altra la direzione di marcia assunta dal giovane Papini. Ferocemente antihegeliano e più tardi anticrociano, il suo percorso inizia distinguendo nettamente nella filosofia tardo-ottocentesca una radice individualista e pessimista, da Schopenauer e Bergson; e prosegue attraverso una personale ricerca sulla filosofia della conoscenza, che lo rende sospettoso se non ostile rispetto all'estetica dell'avventura coloniale e della nazione latina e proletaria sviluppata dai postcarducciani e decadenti, da Scarfoglio a Corradini, attraverso il «Convito», il «Marzocco», il «Regno», «Hermes». Un'estetica che già gli appare conciliatoria e ambigua, nel suo contesto giornalistico e politico proto-nazionalista; tanto da farlo entrare in contrasto con l'amico e co-fondatore del «Leonardo», Prezzolini, proprio appena prima di iniziare l'attività editoriale per Carabba, nel periodo di passaggio dal «Leonardo» alla «Voce», (1906-1908) 23. Mentre Papini trova il rovescio del pragmatismo in una ricerca accentuatamente mistica e autobiografica, dando segno di poter rinnovare un cammino ormai consueto (da Huysmans in poi) per l'avanguardia decadente, dal pessimismo alla religiosità, Prezzolini prende in quel periodo decisamente la strada/missione della concordia nazionale delle forze del rinnovamento culturale, per «ristrutturare la cultura», per una nuova vita nazionale e una nuova arte fondate sulla dimensione morale. E quindi «apre» stabilmente a Benedetto Croce.
   Dal canto suo, come è noto, Papini resta dubbioso sul programma prezzoliniano della «Voce», che trova troppo conciliatorio; si mostra ostile alle convergenze con Salvemini, all'apertura verso Croce, pur se concorda con l'impegno egemonico-nazionale della nuova rivista e con lo sforzo di


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rinnovamento in tutti i campi, dall'analisi morale al dibattito religioso e filosofico, alla letteratura e all'arte. Si accentuano in questo periodo in Papini la spinta all'introspezione, l'angoscia per la maschera (che è la forma della versatilità attivistica, il «bisogno di conquistare qualcos'altro», la continua proposizione di nuove idee, teorie e miti, fino all'instabilità, alla cosciente forzatura della menzogna in verità: «quando le idee non vanno, bisogna crearne altre ed imporle. Il proselitismo è una buona ginnastica», 1905). Una maschera dolorosamente autoanalizzata di continuo nei carteggi, come segno di una condizione irreversibile del soggetto, come possibile testimonianza di una «religione del suo tempo», e quindi come forma da comunicare, in un rapporto spirituale di massa, a un pubblico (che è immaginato come «l'intera generazione dei giovani borghesi») 24.
   E in effetti si apre, con l'espansione dei ceti colti, la possibilità di una diffusione di massa dell'arte aristocratica (l'operazione dannunziana), e non solo la possibilità di un'egemonia culturale e morale attraverso gli intellettuali professionali (l'operazione crociana, tra la distruzione della falsa cultura positivistica e la conquista del ceto degli uomini di cultura e degli insegnanti). L'impulso da cui muove Papini sul piano editoriale è dunque quello di comunicare a livello di grande pubblico una nuova forma della coscienza, con le sue figure, e il suo mito principale: il primato della forza del pensiero individuale (mito da cui discendono le predilezioni tipiche e semplificatorie dell'orco Papini: per esempio Dante e Carducci virili contro gli effeminati Ariosto e D'Annunzio); ma è impulso che rimette al centro critica e letteratura, portando Papini all'autoemarginazione della «Voce», che fa soprattutto politica e cultura. Critica e letteratura come pratica di un atteggiamento mentale e spirituale diretto, fermamente logico e non conciliatorio, anzi demistificatore (con


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un occhio a Pareto e Sorel); o, in un'altra incarnazione, come testimonianza di un'etica religiosa e mistica, purché il pensiero si manifesti totalmente, e sinceramente, con tutte le facoltà sveglie, senza infingimenti e mediazioni.
   È in questa situazione che Papini cerca un editore. Aveva stampato, prima, a Milano Il crepuscolo dei filosofi, nel 1906 con una piccola casa editrice (inventata da D'Annunzio per alzare il prezzo delle sue richieste economiche nei confronti di Emilio Treves, e in seguito rilevata con forte esborso dall'editore milanese); poi i suoi libri erano usciti presso altri piccoli editori fiorentini. Ora Ricciardi, all'inizio della sua attività, nel 1907, gli stampa IL pilota cieco, raccolta di favole metafisiche, fantasie lunatiche ed altro. Il nuovo editore di cultura napoletano, all'esordio, si muove infatti soprattutto sul piano letterario, e dopo Papini troveranno ospitalità nelle sue edizioni i saggi critici dei «fiorentini» Borgese, Cecchi, Prezzolini, Corradini. Agli inizi del 1908, proprio mentre si avvia la «Voce», Papini tenta comunque di entrare nel circuito nazionale della pubblica opinione (dove sono ormai stabilmente inseriti D'Annunzio e Croce): si propone a Treves e al «Corriere della Sera», ma non riesce a concludere. Così, in difficoltà economiche e in dissenso con gli amici, si ritira per un periodo in campagna, e per un anno lavora intensamente alla preparazione della Cultura dell'anima, di cui aveva definito con Gino Carabba l'impianto. La scelta è dunque, alla fine, quella dell'impresa editoriale progettata e realizzata autonomamente (la stessa scelta, come è noto, continueranno a praticare singoli e gruppi intellettuali, in una prima ondata di editoria di cultura, più o meno negli stessi anni: i futuristi, la «Voce», Formiggini...).
   Il periodo della più stretta collaborazione tra Papini e la Carabba va dal 1908 al '13; nel frattempo il neo-direttore di collana collabora alla «Voce» (fino all'11) dall'esterno, con articoli fortemente intrecciati al suo nuovo lavoro di editore di cultura (si veda per esempio il discorso sulla tradizione letteraria nazionale in L'Italia risponde, sulla «Voce», 1908;


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poi Papini torna di nuovo in campo con una rivista «personale», di cenacolo, insieme a Giovanni Amendola (e anche sull'«Anima», del 1911, vi sono tracce importanti delle parallele scelte editoriali che egli va maturando; alcuni dei suoi saggi di questo periodo saranno raccolti nelle Polemiche religiose, che Carabba stamperà nel '17. Nel mezzo di questo periodo intensamente legato al lavoro editoriale, nel '10, Papini inizia anche a stendere Un uomo finito che esce nel '12 per le nuove edizioni della «Voce»: autobiografia, romanzo, manifesto intenzionale di una generazione. Perché per la «Voce» e non per Carabba? La situazione, in effetti, tende a cambiare nettamente dopo la guerra di Libia, quando Papini progetta di nuovo una rivista, che — come appare dal carteggio con Rocco Carabba — per un certo periodo egli propone insistentemente all'editore abruzzese. Ma «Lacerba» si realizzerà altrove. L'autoemarginazione di Papini, che ormai ha conquistato un ruolo di prima grandezza sul versante editoriale proprio attraverso la Carabba, si rovescia in protagonismo, con l'avventura futurista, insieme a Soffici e, in un primo tempo, a Marinetti e i suoi. Sempre più, dal '13 in avanti, il baricentro dell'avanguardia si sposta a nord, tra la Milano futurista e Firenze, dove si riorganizza l'attività culturale, letteraria e editoriale intorno a Vallecchi.

   4. Si comprende così perché, in questa vicenda, l'operazione editoriale impostata da Papini con Rocco Carabba tende a configurarsi come un progetto nettamente definito e precisato: non funziona affatto, come si potrebbe pensare, come «servizio», come «raccoglitore» dell'esperienza vociana. Tanto che si stabilisce una netta divisione di compiti con Ricciardi, e con altri editori minori come Puccini di Ancona, o come Perrella (uno «scolastico» che si è ingrandito e ha acquistato lo stabilimento tipografico di Città di Castello), e con la stessa Libreria della «Voce», egemonizzata non da Papini ma da Prezzolini (dove pure Papini pubblica i suoi libri di maggior successo: Un uomo finito nel 1912, Buffonate


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nel 1914, e Stroncature nel 1916) 25. Il progetto Papini-Carabba, limitrofo alla «Voce», è anche infatti in parte polemico con la «Voce» (una polemica esplicita, pubblica, almeno sul piano letterario, c'era anche stata, tra Papini e Cecchi) dato che la rivista, per Papini, tendeva ad oscurare l'originalità di linea, sul piano filosofico e ideologico, che i fiorentini avevano coltivato negli anni precedenti.
   La Cultura dell'anima viene lanciata con quattro volumetti in contemporanea, stampati alla fine del 1908 e distribuiti, finito il ciclo dei libri scolastici, come d'uso all'inizio del 1909: Aristotele, Il primo libro della metafisica, tradotto e curato da Giovanni Vailati; Galilei, Pensieri, frammenti filosofici scritti e ordinati da Giovanni Papini; Schopenauer, La filosofia delle università, prima traduzione con introduzione di Papini e appendice di Vailati; Boutroux, La natura e lo spirito e altri saggi tradotti e introdotti da Papini. Il successo della collezione è notevole e immediato (tanto che nel 1911, dopo soli due anni, si arriva già a 45 volumetti, con diverse ristampe dei primi) 26. Si tratta di un'effettiva


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novità nel panorama dell'editoria italiana, sia per l'inusuale uscita in contemporanea, sia, soprattutto, per il taglio nuovo: volumetti economici ad una lira, formato tascabile ma molto elegante, con la copertina disegnata da Soffici, nitidi nella stampa, e agili nella scelta dei testi. Una scelta che corrisponde a una precisa opzione ideologica e filosofica, ma anche a un'invenzione di forma e di struttura particolarmente originale, destinata a lasciare un'impronta di gusto e a trasmigrare nelle edizioni «di cultura» degli anni '10 e '20.
   Prendiamo il capostipite, Il primo libro della metafisica di Aristotele. Vailati dichiara subito, nella brevissima introduzione, l'intento di pubblicare «nè per gli scolari nè per i filosofi», e nello stesso senso motiva la scelta di selezionare il solo primo libro, quella della critica alla teoria delle idee di Platone. Una scelta implicitamente polemica rispetto ai criteri laterziani dei Classici della filosofia (del resto la sua presentazione della filosofia aristotelica inizia così: «la positività della scienza, negata dai sofistici e dagli scettici, non presenta nessun dubbio in Aristotele»...), anche e soprattutto perché qui si vuole «modernizzare l'espressione delle idee...», «cercando di intendere bene ciò che voleva dire e poi ridicendolo non già coi termini risecchiti della Scuola, ma con parole e modi di dire più famigliari a noi moderni. Questi criteri del traduttore daranno forse ai nervi dei filosofi amatori fedeli e scrupolosi della fedeltà e scrupolosità, ma questa traduzione non è fatta per loro...».
   Si invocava, insomma, il diritto alla traduzione infedele ma vera, dello spirito e non della lettera, e l'obiettivo di rendere possibile il rapporto diretto con il testo e più che con il testo, con il pensiero, con l'idea e l'esperienza che è dentro il testo. Per cui esso perde la sua centralità, la sua


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intangibilità, e il suo limite di movimento nel confine filologico della tradizione. E può essere rotto, frammentato, per vedere come funziona, di quali pensieri è fatto. Questo afferma, del resto, in modo più misurato, anche la presentazione richiesta da Rocco Carabba a Papini per il lancio di stampa e per la quarta di copertina: Cultura dell'anima «non ha scopi dogmatici, ma vuole soltanto offrire agli studiosi e ai lettori intelligenti cose importanti ma rare ad aversi, sia per la difficoltà della lingua, sia per la dimenticanza, sia per la scarsità delle edizioni». La nuova cultura filosofica uscirà così dal pubblico ristrettissimo delle rivistine, e passerà dalla conoscenza confusa e indiretta o scolastica finora tipica nel pubblico largo al rapporto immediato e agonistico tra l'individuo e il testo: leggendo opere «non solo di filosofi antichi e celebri, ma anche di recentissimi ancora discussi — non solo scritti originali, ma riassunti di sistemi e monografie su pensatori o su religioni — non solo opere filosofiche, nel senso rigoroso della parola, ma anche documenti religiosi e letterari che hanno rappresentato idee e tendenze dominanti in qualche gran momento della coscienza umana — non solo opere di uomini che han dato tutta la vita alla filosofia, ma anche raccolte di pensieri di artisti e di scienziati». E vi sarà spazio notevole per il pensiero orientale (a cui — come è noto — Papini si era già accostato dal 1906-07).
   Il forte intento divulgativo, la presa diretta sui testi, che devono catturare e scuotere l'intelligenza, la coscienza del lettore medio (il quale, nell'estetica papiniana deve cercarsi autonomamente una nuova religione, un abito di pensiero e di vita) è supportata in genere da un scarno apparato paratestuale: il testo è presentato direttamente, modernizzato, e privo di note, sia esplicative che filologiche; accompagnato solo da un'impegnata presentazione; piuttosto, corredato da una discreta e selezionata bibliografia. Anche questi sono tratti tipici della cultura vociana e del nuovo tipo di editoria intellettuale che con questa collana inizia.


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   Penso siano comprensibili, a questo punto, gli assi di selezione: restiamo al primo anno della Cultura dell'anima, e troviamo frammenti e pensieri, soprattutto. I frammenti filosofici di Galileo, poi di Sarpi, il recupero dei Ricordi di Guicciardini dopo l'unica edizione desanctisiana del 1857, la scelta di Pensieri sugli uomini di Machiavelli, e così via, tutto selezionato e ordinato da Giovanni Papini. Poi La filosofia delle università libello antihegeliano di Schopenhauer, raddoppiato da un pamphlet di Vailati contro l'insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie, cioè contro uno dei capisaldi della linea di Croce e Gentile; e saggi scelti del Boutroux, (tra i quali La psicologia del misticismo; estratti di saggi di Bergson e di James, anche questi a cura di Papini; un recupero — come pensatori — di Foscolo e di Pietro Verri, sempre curato in prima persona da Papini; ancora: una linea satirico pessimistica, dai Libelli di Swift tradotti da Prezzolini a In vino veritas di Kierkegaard; e la riscoperta di un testo-base per l'estetica decadente: La difesa della poesia di Shelley, tradotto da Cecchi. A conti fatti Papini prepara direttamente le edizioni di quasi tutti i primi quindici volumi; si desume dal carteggio che egli riceve 200 lire a volume dall'editore, mentre per i volumi affidati — sempre su decisione esclusiva di Papini — ad altri curatori, il compenso è della metà. L'editore poteva guadagnare, su un titolo abbastanza fortunato, una cifra considerevole: i volumi erano per contratto almeno 10 all'anno, e più tardi 20. E in effetti il successo commerciale arriva, e consente a Carabba (che si mostra imprenditore di razza, un autodidatta formatosi sui suoi stessi libri, ma anche un capo di azienda che misura e calibra bene i passi), di rilanciare quasi subito, e a Papini di allentare un po' la fatica, affidando ad altri la cura di un notevole numero di volumi dopo i primi quindici 27.


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   In particolare, vengono coinvolti nel 1910 (ma diversi libri usciranno nell'll e nel '12) Boine, Jahier e Amendola, a ridosso dell'esperienza dell'«Anima». E di quegli anni l'effettiva apertura dalla collana ai testi buddistici, agli scritti di Calvino (Jahier), di Sant'Anselmo (Boine), del profeta e santo dei poveri Lazzaretti, del cattolico Hello; in parallelo, il recupero romantico (principali collaboratori Borgese e Prezzolini) con Hòlderlin, Schelling, Fichte, Hebbel, fino ai Canti spirituali di Novalis 28. Segue una fase di nuovo centrata sul rapporto tra teoria della conoscenza e religione: Pitagora, Malebranche, Spinoza, Vico, Kant, Brentano, una fase che anticipa notevolmente quella che sarà nell'immediato dopoguerra il tentativo di un'editoria filosofica anti-neoidealista sostenuto da Formìggini. Interessante, poi, la traduzione, ad opera del giornalista e sindacalista rivoluzionario Agostino Lanzillo, di un testo di Sorel che l'autore rielabora e presenta direttamente: La religione d'oggi (un libro che segue alle Considerazioni sulla violenza apparse nel 1909 nell'edizione


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laterziana, e ad altri scritti, usciti nelle riviste dei sindacalisti) 29.

   Impostata e lanciata la collana, che egli tiene sempre sotto diretto controllo (nonostante una richiesta di Boine nel '10 di lasciargli la direzione) ed esaurito il primo lavoro diretto sui testi, Papini si dedica a progettare la seconda impresa della Carabba rinnovata: Scrittori nostri, testi letterari italiani, che iniziano ad uscire, in formato analogo a quello della Cultura dell'anima dopo appena un anno, sempre nel '10. Anche in questo caso il direttore si attribuisce inizialmente, fino al '12, la cura diretta di una metà circa delle uscite: le Lettere di Michelangelo, le Poesie di Lorenzo, le Novelle di Ser Giovanni Fiorentino, le commedie del Lasca, ma anche il Saggio sul Petrarca del Foscolo e un volume sulla Leggenda di Dante dal '300 al '900. Dante, Michelangelo, il Lasca, sono del resto altrettante personificazioni di quell'Italia che risponde di un articolo-programma papiniano uscito sulla «Voce» nel 1908, esempi di una riscoperta tradizione di scrittori veri, sinceri, robusti — alle radici del versante che sarà poi quello toscano di Strapaese e di Malaparte — su cui Papini torna e tornerà più volte durante la sua lunga carriera di moralista, stroncatore e mitografo 30.
   Ad altri, soprattutto a Cecchi, Soffici e Amendola, Papini affida autori meno congeniali, ma sempre integrabili nella linea della satira e della novella, o dell'invettiva critica e polemica, comunque del testo minore, e sempre del testo breve e della scelta immediatamente fruibile, secondo un canone


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nettamente antiscolastico: dai Ragguagli del Boccalini alla Cronica del Compagni, alle Novelle del Sermini, al Discorso su Shakespeare e Voltaire del Baretti, alle Elegie dell'Ariosto, e ancora all'Epistolario del Tasso (curato da Scipio Slataper). Nella maggior parte dei casi, queste riscoperte per mettevano effettivamente una circolazione larga di testi spesso conosciuti solo da pochi specialisti, opere certo brevi e minori, ma che entravano nel circuito del consumo di buona letteratura saltando la mediazione scolastica e senza passare per lo storicismo crociano, importandovi un nuovo canone estetico e di gusto 31.
   La polemica con Benedetto Croce, prima a distanza e trattenuta («questa nuova collana non vuole contrapporsi ad altre che già prosperano, piuttosto completarla...», si legge nella presentazione del 1908), poi violentissima, era nelle cose. Sul «Giornale d'Italia», nel settembre 1909, Croce riprende una discussione tra Bellonci e Piccoli (apparsa sulla «Voce») a proposito dei diversi tagli possibili di una collana nuova di scrittori italiani: tra due tendenze contrapposte,


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delle quali «una mirerebbe a una collezione di testi completi degli scrittori italiani (in modo conforme ai tempi nostri — Classici milanesi — )» e una «che tenendo d'occhio soprattutto il gran pubblico, vorrebbe che si facesse qualcosa di simile ai volumi di Pagine scelte, ora di gran moda in Francia», egli mostra di non aver dubbi, tanto da esporre brevemente il programma (dettato a Giovanni Laterza, appositamente convocato in Abruzzo) di quelli che saranno poi gli Scrittori d'Italia:

   I - «La collezione si forma sopra un piano regolatore rappresentato da un preciso catalogo di tutti i volumi (300 e più). Costituito questo catalogo bisognerà dichiararlo chiuso» (pena la degenerazione dell'equilibrio...).
   II - «Testi completi (solo per scrittori affatti secondari si fa eccezione)».
   III - «Modello editoriale tedesco, oxoniense, testi critici accuratissimi, nessuna nota, tranne un'appendice critico/bibliografica», se no i volumi invecchierebbero, e ci sarebbero oscillazioni.
   IV - «8°, come i Classici della filosofia (laterziani)»: «si evitano così i formati tascabili, che rendono impossibile l'accoglimento di ampli testi...» 32.


   Papini e Rocco Carabba — che subito telegrafa al «Giornale» per dare notizia della prossima uscita degli Scrittori nostri — hanno la sensazione di una contromanovra di Croce, diretta a sminuire la nuova collana della casa abruzzese, di cui il filosofo poteva aver avuto notizie («siamo in guerra» scrive Papini, e l'editore concorda). Ma mentre il successo dei nuovi classici minori e tascabili Carabba è immediato,


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l'impresa laterziana ha ovviamente tempi più lunghi. Nel frattempo, una prima stroncatura dei libretti di Carabba esce sulla «Critica», nel 1909, contro il libello di Schopenauer nella Cultura dell'anima (definito uno «sfogo senile», dal Gentile). E in effetti, soprattutto nel periodo intermedio tra l'«Anima» e «Lacerba», il clima si accende: Papini, che già nel 1905 era stato polemico sulla Logica, attacca nel 1912 a fondo il saggio crociano sul Vico, accusando Croce di aver gonfiato e sopravvalutato l'originalità del pensiero vichiano rispetto a Galilei e Bacone. Riceve una dura replica, ma ripubblica senza deflettere la stroncatura nei Ventiquattro cervelli (Puccini, 1912). Si arriverà agli insulti nel 1913, insulti che hanno per oggetto proprio gli Scrittori nostri. Papini prende di mira il Breviario di estetica; compare su «Lacerba» il celebre Sciocchezzaio crociano. Risponde Croce, stroncando in modo violento e particolareggiato l'edizione che Papini aveva appena fatto uscire delle Poesie del Campanella negli Scrittori nostri (una edizione non a caso a lungo trascinata dal curatore). La polemica avrà un paio di repliche furenti, e il terreno del contendere — oltre alla cattiva filologia del Papini — è proprio quello delle scelte editoriali. Le edizioni di Papini, per Croce, sono scorrette; a Papini manca la necessaria cultura, preparazione e pratica, il suo lavoro di editore è ulteriore manifestazione dell'eterno nemico, il dilettantismo («Il Papini fa da un pezzo un gran baccano... atteggiandosi a genio poetico, a rivoluzionario filosofico, e ad apostolo di nuova vita»).
   In effetti anche sul piano dell'editoria, tra Croce e Papini vi sono due impostazioni del tutto incompatibili. E al di là del giudizio che possiamo dare sul piano filologico - dove è Croce ad avere buone ragioni — è impossibile sfuggire a una valutazione sul piano della storia letteraria e culturale non sfavorevole al suo antagonista: non c'è nulla di paragonabile, in quantità e qualità, su questo versante della mediazione colta, alle edizioni Carabba, nell'editoria pure in notevole espansione del quindicennio giolittiano. Per definire


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le proporzioni del fenomeno, occorre considerare che anche le edizioni della «Voce» prezzoliniana si limitano — salvo uno sporadico tentativo nel '10 — al solo versante critico e alla produzione creativa diretta: in realtà la divulgazione di una nuova cultura filosofica e letteraria, la conquista di una nuova generazione colta, è impresa affidata alla Carabba, e si traduce in un'estetica editoriale d'avanguardia 33.

   5. Rocco Carabba è ben attento a proseguire senza diversioni sulla strada così ben avviata (diffida, per esempio, dei tentativi di Papini di fargli pubblicare testi fuori collana). Insieme all'altro figlio maschio Giuseppe, mentre si deteriorano violentemente i rapporti con il primogenito Gino, avvia la costruzione di un grande stabilimento, che entra in attività nel '12; la produzione è in continua crescita, tanto che sembra l'azienda arrivi ad impiegare, comprese diverse tipografie impiantate in altri luoghi dell'Abruzzo, circa 350 operai. Alle due collane principali si affiancano tra il '10 e l'11 altre due imprese: L'Italia negli scrittori stranieri, sempre in economia, sempre raffinata, diretta da Giovanni Rabizzani (collabora anche Di Giacomo), dove si pubblicano diari italiani, da Chateaubriand a Dickens 34; e Antichi e moderni in


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versioni scelte, diretta da Borgese. Quest'ultima è di nuovo un'operazione editoriale di avanguardia, antesignana della Romantica che lo stesso Borgese dirigerà molti anni più tardi per Arnoldo Mondadori; particolarmente interessante è il ruolo attribuito alla traduzione, come operazione di scrittura non più di seconda mano. Errante e Pocar sono i traduttori per gli autori tedeschi (Novalis, Hebbel, Lessing, Fichte); Soffici e altri per i russi (Puskin, Cecov, Gogol). Si può dire che la letteratura russa trova qui un secondo momento di fortuna dopo il primo passaggio, che era avvenuto via Parigi e Napoli nei primi anni '90 attraverso la mediazione di Ciampoli e Verdinois (il terzo momento, in forma alluvionale, verrà dopo la grande guerra) 35.
   Ma è proprio a questo punto, nel '12, che avviene la duplicazione della Carabba. Gino, il primogenito, si mette in proprio e lancia una nuova collana, certamente sfruttando la sigla editoriale ormai affermata: sono i volumetti degli Scrittori italiani e stranieri, ancora economici, di formato ancora più piccolo, ancora elegantissimi (e questa volta, rilegati). E di nuovo è un'iniziativa di successo: escono almeno una quarantina di numeri nei primi due anni, un centinaio entro il '17, duecento entro il '21. La collana si appoggia su filologi e letterati di professione (ancora il Ciampoli, il Battelli, il Chini, l'Allodoli, e Federico Verdinois, come il Ciampoli già nelle avanguardie della Roma Sommaruga e della Napoli Pierro-Scarfoglio). Verdinois cura soprattutto i narratori


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russi (sui quali quindi c'è un doppio investimento della doppia Carabba: Gogol, Dostoevskij, Puskin, Saltykov); e inoltre Sienkiewicz, e il poeta indiano Tagore. Un altro consulente di Gino Carabba è Paolo Orano, giornalista-scrittore e teorico del sindacalismo rivoluzionario (vicino, come Lanzillo, a Mussolini), che cura Laclos e Diderot.
   Quella di Gino Carabba è una vera universale economica di letteratura, per un pubblico allargato, ormai conquistato alla mediazione colta, e ben distinto dal destinatario del romanzo di massa popolare; un pubblico convinto della modernità possibile dei testi di ogni epoca e provenienza purché densi di qualità letteraria, brevi, leggibili direttamente. Una proposta letteraria raffinata, di gusto elevato, opposta allo sviluppo basso del romanzo erotico postdecadente, e decodificabile anche come costruzione di un mondo «alto», dello spirito, alternativo alle passioni spesso brutali della lotta economica e politica (e più tardi, dell'abbruttimento della guerra): raccolte di aforismi; scritti di artisti, da Leonardo al Dolce; canti, poesie e fiabe popolari di diversi paesi. Ma soprattutto: la letteratura indiana; la ripresa raffinata del comico, dal Boccaccio, a Poggio, all'Aretino, a Doni, a Rabelais (una linea che anticipa prima e fiancheggia poi i Classici del ridere Formìggini); qualche scritto minore dell'800, di Mazzini, D'Azeglio, De Marchi, Lessona; e i settecenteschi Laclos, Diderot, Gigli, Gozzi (anche qui percorrendo un gusto anni '30); e i non più letti Balzac e Schiller. E sono sempre e comunque testi brevi, leggibili in una notte 36.
   Anche in questo caso, la grande rispondenza del pubblico


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(come per l'altra Carabba, quella papiniana) durerà per quasi trent'anni. E il modello raffinato di mediazione del letterario inaugurato dall'universale Carabba verrà largamente seguito. Si è ad un passo, fin dagli anni 10, da un'estetica della letteratura come vita interiore del soggetto, come asse di selezione del gusto e della cultura; ci sono le basi per quella che sarà dopo la guerra il passaggio della «Ronda»; mentre su un terreno di ulteriore mediazione editoriale e di mercato si fermerà, solo più tardi, nel '21, la coppia Emilio Treves-Ugo Ojetti, per stampare sulla stessa scia gli eleganti tascabili delle Più belle pagine degli scrittori italiani (e ancora avremo le collane anni '20 dell'Istituto Editoriale Italiano del Notari, con Ettore Romagnoli, e così via). Nel frattempo la stella di Croce temporaneamente declina, con l'interventismo e la guerra.
   Papini, abbastanza presto, durante l'esperienza futurista, annuncia sulla «Voce» (nel '14) l'abbandono della direzione delle due collane di Rocco Carabba, perché «passatiste»; ma dal carteggio sembra evidente che la direzione effettiva continua a restare la sua 37. Con la guerra la Cultura dell'Anima rallenta il ritmo, ma prosegue, con volumetti curati da Giuliotti, Ambrosini, Renzi, Slataper, Stuparich, Jahier. E lo stesso vale per gli Scrittori nostri, curati da Galletti, Ciampoli, Allodoli ed Errante (collaboratori, come si è visto, anche di Gino Carabba), e da Amendola, De Robertis, Prezzolini, Bontempelli, Tozzi 38. Solo nel '20 si chiude effettivamente l'avventura editoriale di Papini con la casa abruzzese, quando — ormai bestseller per Vallecchi con la Storia di Cristo — chiede alla Carabba, dopo la conversione al cattolicesimo, di ritirare le Polemiche religiose (uscite nel '17), avendone da Rocco un netto rifiuto 39.


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   È tutta da riscoprire anche la storia delle edizioni Carabba tra le due guerre. Le iniziative di Gino Carabba resteranno sempre fedeli alla cifra iniziale, di estrema raffinatezza. Gli Scrittori italiani e stranieri, che gravitano tra Oriente e poesia, soprattutto fra il '19 e il '23, passano in seguito durante il ventennio nero a un'esplorazione di zone e testi inediti o poco conosciuti anche sul terreno della narrativa dell'ottocento e del teatro, contribuendo alla costante presenza delle letterature slave, alla diffusione in Italia dei testi di Anatole France, e più tardi a una nuova svolta mistica 40. La raccolta si avvicinerà, alla fine, ai cinquecento volumetti, curati — tra i molti — da G. Baccelli, D. Ciampoli, Eva Kuhn, M. Puccini, G. Craig, G. Battelli, G. Perticone. Alla collana principale si affiancano i Mistici, fin dal 1919, e la rivista «Alle fonti delle religioni», diretta da G. Formichi e G. Tucci, dal 1922 al 1938 41. Sul terreno più strettamente letterario, notevoli gli esordi, nel '24-'25, della collana degli Scrittori d'oggi, con testi di Onofri e Savinio; inoltre sono di un certo rilievo le antologie di poeti contemporanei italiani e di altre lingue, l'opera omnia di Roberto Bracco, qualche raccolta di saggi critici 42.
   Ma il fenomeno culturale e editoriale più importante resta la Carabba primigenia. Dopo la morte di Rocco nel '24,


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la direzione della casa madre è assunta da Giuseppe, e anche senza la tutela di Papini le scelte restano interessanti, e l'impresa non abbandona mai la posizione di rilievo conquistata prima del ventennio. La Cultura dell'anima mantiene la sua caratterizzazione filosofica, aperta a fasi alterne alla meditazione religiosa; Antichi e moderni in versioni scelte anche senza la direzione di Borgese prosegue fino al 1934, rivaleggiando con l'universale della Gino Carabba sul terreno dei testi rari (Baudelaire o Jean Paul, ma anche Unamuno o Hamsun). Nella cifra del «raro», del «piacere dei letterati e... degli studiosi» vengono ripubblicati anche gli Scrittori nostri, e L'Italia negli scrittori stranieri, imprese interrotte nel '19. E costantemente vengono ristampati i Classici del fanciullo, scelti da Eva Kuhn Amendola 43.
   Fin qui, gli elementi di continuità. Ma è evidente anche il passaggio da vecchi a nuovi legami, sul piano letterario e culturale. Se ancora nel 1920 Rocco Carabba, a testimonianza della antica collaborazione, stampa le ultime novelle {L'ignoto), e il Teatro di Giacomo, al '21 sembrano risalire i primi rapporti diretti con Gentile, attraverso De Titta; e nel tempo, fino al '33, la casa stampa i cinque volumi di Scritti vari gentiliani: fatto che assume un notevole rilievo, se si tiene conto dei tentativi — riusciti — di Gentile di assicurarsi in quegli anni una quasi completa egemonia nel sistema delle case editrici di cultura 44. E con la riorganizzazione fascista dell'editoria scolastica, la Carabba conosce un'ulteriore espansione, soprattutto con le collane per la scuola secondaria (utilizzando anche scrittori come Alvaro, Govoni,


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Rabizzani, Puccini, come è d'uso in quel periodo). Tanto da risultare terza, nel '29, dopo il vincente Mondadori e dopo Marzocco, nella gara per accaparrarsi il mercato secondo le nuove regole 45. Ma nello stesso tempo, mantenendosi abbastanza solido sul piano finanziario, Giuseppe Carabba sembra anche intuire i movimenti di fondo del nostro quadro letterario. Almeno dal '28, alla casa collabora stabilmente Corrado Alvaro, a cui è affidata la direzione dei Narratori d'oggi. Di eccezionale livello sono i libri di poesia: Parole di Saba; Fine di stagione di Solmi; i Prologhi, viaggi e favole di Cardarelli; l'edizione definitiva, nel 1931, degli Ossi di seppia di Montale, con l'introduzione di Gargiulo. La terza linea letteraria della Giuseppe Carabba, negli anni trenta, è quella dei Novellieri italiani moderni: Angioletti, Alvaro, Moscardelli, Titta Rosa, Emanuelli, Savarese, Moravia 46. Quasi tutta la letteratura di ricerca anche nella sua linea saggistica e di prosa d'arte è rappresentata, dagli ex-rondisti (Cecchi, Bacchelli, Cardarelli, Barilli, Linati) alla nuova generazione (dove è forse Falqui, oltre ad Alvaro, il referente probabile). Le storie letterarie non lo segnalano; eppure risulta evidente la posizione di punta della Carabba nello schieramento della resistenza e riscoperta delle lettere, come riserva e zona autonoma rispetto alla pressione linguistica e ideologica del regime, dalla fine degli anni '20 all'avventura imperiale: si pensi a La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz, agli Scrittori inglesi e americani di Emilio Cecchi, agli Scrittori nuovi di Falqui e Vittorini, a La bella vita di Alberto Moravia 47.


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   C'erano, dunque, i presupposti per una continuazione di questa impresa oltre il crollo del fascismo. Ma la guerra, il passaggio del fronte lungo la fascia adriatica e i bombardamenti distruggono materialmente gli stabilimenti. I tentativi di ripresa di entrambe le case, nel 1948-49, falliscono. Le macchine di Rocco Carabba passano alla tipografia romana del «Popolo», segnando, anche simbolicamente, la fine di un ciclo e l'inizio di un altro tipo di egemonia, sull'Abruzzo e sul Sud.
   Un'impresa di cultura, in definitiva, da riconoscere tra quelle portanti del nostro Novecento. Ma torniamo agli inizi, e ascoltiamo come descrive quella stagione, quel primo costruirsi di una autonoma editoria di cultura e di ricerca letteraria un testimone importante: Renato Serra. Alla fine del '13, dopo aver tratteggiato il rapido mutamento nelle condizioni della cultura e dell'editoria italiana avvenuto negli ultimissimi anni («l'alluvione di buoni libri», il sorgere di editori nei centri di provincia «con un'energia, un coraggio e una serietà che fa meraviglia», il fatto che si legge e si compra molto: «oggi tutto si avvia a diventare letteratura», ossia libro che può essere letto da tutti, «cose di interesse comune»), Serra nota come i libri tendano ora ad uno stile unico. C'è stata finalmente l'unificazione linguistica vera, c'è una lingua parlata, propria, viva, non distinta per caste; c'è una educazione più severa del gusto, un'idea di cultura non solo


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letteraria e storica ma anche artistica, scientifica e filosofica; non c'è più il letterato «puro». E il momento della critica, sentita «come esigenza e problema del pensiero, passione dell'animo, forma dell'arte». Il posto che la critica ha preso è per Serra il vero segno del tempo: un'esigenza più acuta di novità, di originalità, di indipendenza, un fastidio del convenzionale, del retorico, una insofferenza sottile: «noi sappiamo che quel che importa è la coscienza, e questa è sveglia, pronta, mobile, nuova: ironia talvolta e aridità e contrattura quasi nell'apparenza, ma schiettezza e forza e novità dentro, nella sostanza, novità soprattutto. Poche stagioni danno una tale impressione, non forse di fioritura o di felicità, ma di cambiamento, di distacco e di liquidazione del passato».
   In questo nuovo fiorire del libro di cultura e di letteratura, il passato è leggero: «l'eredità del passato è leggera». Se c'è un classicismo, nota Serra, è un «classicismo nuovo che è più della cultura che dell'arte»: «un desiderio vasto e disinteressato di conoscenza, che abbraccia gli antichi e i moderni, gli stranieri e i nostri, richiama in mezzo a noi Goethe e Shakespeare, Cervantes e Aristofane, e il Mahbarata; e ci mette in contatto diretto con tutti i morti della nostra terra, autori della nostra razza. E un classicismo che ha un valore piuttosto morale e politico che letterario, che è anche orgoglio di cultura, non mai modello».
   Questo era il quadro del nuovo stile; ed era fortemente influenzato, come si vede, dalla avventura editoriale che abbiamo fin qui descritto (lo stesso Serra colloca del resto Papini come il protagonista di quella stagione, insieme a Croce e Laterza). Ma nello stesso scritto — come è noto — Serra rovescia il suo ritratto del nuovo gusto, della nuova sensibilità, fondato (ironicamente) sull'egemonia di un sincretismo di marca prezzoliana: sotto il fiorire dei libri c'è una insincerità superficiale e sinistra. E il panorama si oscura, riprendendo un celebre motivo crociano (Di un recente carattere della letteratura in Italia). Il mercato, la diffusione della cultura sono in grande crescita, la classe dei colti è ora una


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realtà, eppure covano il tormento, l'agonia, la sterilità di una generazione che non porterà riscatto, che avrà un tragico destino 48.


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