Articoli su Giovanni Papini

1980


Renato Bertacchini

Per il centenario della nascita aperto il "dossier" Papini

Pubblicato su: Giornale della libreria, vol. 93, fasc. 4, pp. 66-68
(66-67-68)
Data: aprile 1980



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Si torna a parlare di Giovanni Papini. Non solo, ma la figura dell'Uomo-Guida (come egli amava definirsi con l'amico Prezzolini) risulta sempre meno un «cartone di prova» sul quale incrociare, con l'imbarazzo e la fretta magari della cattiva coscienza, prospettive di enfatica adesione o di radicale, aprioristico rifiuto. Da diversi sintomi, la ricorrenza del centenario della nascita — Papini è nato a Firenze il 9 gennaio 1881 — promette di rendere qualche giustizia all'avventuroso intellettuale di «Leonardo» e «Lacerba», all'autore discusso di Un uomo finito e della Storia di Cristo, dei postumi La felicità dell'infelice e La seconda nascita.
Perlomeno, dopo vent'anni e oltre di pesante, astioso silenzio che datava dalla morte (8 luglio 1956), una più libera, spassionata considerazione storica e atteggiamenti interpretativi meglio penetranti e unitari stanno riprendendo in mano il «dossier» Papini. E lo riaprono senza polemiche e risentimenti alle stagioni vivaci e pretestuose del testimone, dell'Uomo-Guida (vero o presunto) del primo Novecento; lo rileggono e lo verificano questo «dossier» Papini agli episodi e ai punti nodali di un processo, di una sentenza giudicante che comunque si avverte non può più continuare qual è stata finora, inappellabile e vendicativa.

Guerrigliero e teppista intellettuale

Con il lavoro in corso delle riedizioni, integrali o antologiche, e il conguaglio, i contributi saggistici riguardanti le riviste primo novecentesche (cfr. al proposito il nostro Le riviste del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1979; specie ai capp. I, IV, V e relativa bibliografia) la figura di Papini «stunner und dranger» toscano, «guerrigliero» che fonda il «Leonardo» (gennaio 1903), comincia a entrare e a rilevarsi nel quadro vivo e prospettico della cultura dell'età giolittiana. Alla stagione militante delle grandi riviste fiorentine «Leonardo», «La Voce», «Hermes», «Il Regno», «Lacerba», Papini partecipa a pieno titolo, da promotore e agitatore di cultura (disordinato e «febbricitante» quanto si vuole), come «intellettuale esteta» e «imperialista», come «neofita pragmatista» e «futurista», insieme agli amici Prezzolini, Borgese, Soffici, Corradini.

Qui, a questo nodo dell'articolista, del Papini «antropofago vorace» e «Morgante scotennatore» (ironiche e compiaciute autodefinizioni) occorre distacco e cautela critica. Anche se volessimo negare ai fondatori delle riviste citate il ruolo di soggetti davvero rappresentativi di quella «crisi storica» del Novecento, di quei fermenti ideologici e sociali, politici e religiosi da cui altri loro contemporanei sono ben più responsabilmente e drammaticamente segnati (pensiamo a Croce de «La Critica», a Filippo Turati e all'équipe di «Critica sociale», ai modernisti del «Rinnovamento»); essi, Papini, Prezzolini, Borgese, Corradini figurano pur sempre come «prodotti» di un periodo complesso e movimentato. Che li costringe a dare delle risposte magari disorganiche, velleitarie e persino aberranti, a temi grandi e profondi: il contrasto tra positivismo e idealismo, tra scientismo dottrinale e irrazionalismo mistico e «magico»; le nuove filosofie dell'intuizionismo di Bergson e di James; lo sviluppo dell'ideologia marxista-socialista, parallelo al logorarsi della tradizionale liberale e al sorgere del nuovo «stellone» nazionalista; i fermenti spiritualistici, la ripresa degli interessi religiosi e il rinnovamento modernismo; l'imperialismo intellettuale e la concezione del superuomo nietzschiano.
Davanti a questa trama varia e stratificata di rapporti e questioni, l'«intellettuale-esteta», l'«artista-eroe», il «violatore» Papini tenta di inserirsi nella vita contemporanea assumendo il ruolo del pamphletaire disinvolto e spregiudicato, del «teppista intellettuale», del persuasore occulto e manipolatore del consenso borghese.
Con moventi d'interesse e toni che hanno accentuazioni diverse, filosofico-conoscitive o strumentalmente ideologico-politiche man mano che Papini passa dal «Leonardo» a «Il Regno», a «Lacerba». Così, nel 1903, primo anno della rivista «Leonardo», Papini e Prezzolini soggiacciono


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entrambi ad una forte attrattiva bersgoniana, per precipitare poco dopo (1904-1905) in una seconda fase di «infatuazione pragmatista».
Ma una cosa sono il «pragmatismo logico» di Calderoni e quello «logico-matematico» di Vailati, e altra cosa è il «pragmatismo magico» di Papini, per il quale la volontà di credere produce un vero e proprio «pensare per agire». In questo modo, del pragmatismo Papini scopre e valorizza soprattutto «il lato eccitante, creativo, magico; l'affermazione del potere dell'uomo sul mondo; il trionfo dell'attitudine attiva e modificatrice sopra quella passiva e registratrice; il promettitore dell'Uomo-Dio» (cfr. Cronache pragmatiste, febbraio 1906). La parabola del pragmatista «missionario» e del «teppista intellettuale» culmina con la fondazione, insieme a Soffici, di «Lacerba» (1913); dove Papini scrive articoli provocatori come Gesù peccatore e Freghiamoci della politica, riconoscendo nel Programma politico futurista «l'importanza del movimento, vitale rivolta contro il passato ed esaltazione nazionalistica ad oltranza dell'Italia».

Nella verticale della fede

Nel marzo 1921 esce il libro più famoso di Papini, la Storia dì Cristo, in chiave di autobiografia più che di biografia, seconda nascita ed esempio di un uomo «che dopo tanto scavallare, maneggiare e vaneggiare torna vicino a Cristo». Senonché mentre Un uomo finito (1912), che di quel «tanto scavallare» era la confessata testimonianza, viene accettato nel segno dello «slancio verso il tutto» proprio del combattivo enciclopedismo papiniano; alla Storia di Cristo invece, come frutto della conversione di Papini al cattolicesimo, non si fa credito. Anzi, la sua «conversione», dopo una giovinezza votata al sarcasmo e alla bestemmia di ogni moto religioso, viene letta «abusivamente come una ennesima prova della sua instabilità; per i più maligni del suo trasformismo» (cfr. C. Bo, Il Papini da ricordare, in «Corriere della Sera», 9 luglio 1976).
Eppure anche la tarda adesione di Papini al fascismo o meglio al clerico-fascismo non dovrebbe farci dubitare della sua onestà religiosa. Papini resta sempre nella «verticale» della fede, secondo il corretto giudizio di L. Baldacci (cfr. Introduzione a G. Papini, Opere, Milano, Mondadori, 1977); «l'idea di Dio» in Papini «è esistita sempre» e «il Papini ateo non ha mai accettato la morte di Dio».
Quando si consideri sotto un profilo storicizzante, la conversione di Papini non privilegia tanto il salto qualitativo dalla precarietà arrabbiata e ambiziosa alla certezza, dal diabolisrno al Vangelo; ma chiude piuttosto la parabola dell'elaborazione culturale: positivismo-idealismo-pragmatismo-misticismo. Anche per questo la conversione appare oggi sempre meno un diaframma discriminatore nella vita e nell'arte dello scrittore, perché essa (come avverte C. Di Biase nell'ottimo saggio G. Papini, in Novecento. I Contemporanei, Milano, Marzorati, 1979, vol. II) «fu conquistata e vissuta soprattutto come volontà di credere: un volontarismo etico oltre che artistico e letterario», riscontrabile non solo nella Storia di Cristo, ma in tutta la vasta attività del pubblicista e del letterato. Non è lecito mettere in dubbio l'autenticità lenta, sofferta, volontaristica della conversione, anche se essa seguita a esprimersi sotto il segno della protesta, dell'«alterità» o del «diverso». Fondamentale infatti nella Storia di Cristo «la violenta polemica contro il materialismo meccanicistico della civiltà contemporanea, soffocatorc d'intimità gelose» (cfr. S. Briosi, voce Papini, nel Dizionario critico della letteratura italiana, Torino. U.T.E.T., 1973, vol. II). Incalzanti e impazienti le pagine della protesta e dell'invettiva, «là dove Cristo è rappresentato — risvolto dell'animo papiniano — come il "Rovesciatore", il "supremo Paradossista", il "Capovolgitore" radicale e senza paure» (Di Biase).
Che la linea metodologica dirimente di un Papini «prima» e «dopo» la conversione non valga, non funzioni più lo comprova l'intervento di S. Pasquazi (cfr. G. Papini, in Letteratura italiana contemporanea, Rama, Editore Lucarini, 1979, vol. I), con un discorso critico d'insieme e in movimento che ricostruisce il maturarsi della conversione durante gli anni della guerra «e più ancora nelle esasperanti delusioni dell'immediato dopoguerra».

Militante reazionario o lirico idillico?

Interessi sociologici oltre che letterari


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guardano di nuovo a Papini, figura esemplare, paradigmatica del Novecento italiano, per riconoscervi storicamente e culturalmente la condizione e il ruolo dell'intellettuale tradizionale. Accademico d'Italia e autore di Italia mia (1939), vertice della sua adesione al regime mussoliniano, Papini era già inviso presso la letteratura degli anni Trenta ai giovani scrittori anti-autarchici ed europcizzanci di «Solaria», Vittorini, Pavese, Pratolini (celebre la condanna del solariano Vittorini nel suo Diario in pubblico: «Giovanni Papini ci ingiuriava da un lato, e Farinacci dall'altro»). Prigioniero nella sua stessa immagine di rappresentanza clerico-fascista, Papini ex avanguardista e futurista (il De Maria in una recente ristampa delle Stroncature, Firenze, Vallecchi, 1978, ha messo in luce, accanto all'ispirazione libellistica normalmente divulgata, le componenti ben più importanti, avanguardiste appunto e futuriste, del libro) appare ugualmente tagliato fuori dalla cultura aperta, sperimentale, neorealistica prima e quindi neoavanguardistica del secondo dopoguerra, i cui interessi gravitano a sinistra.
Inesistente o di scarso rilievo risultava al confronto una nozione opposta di «impegno», cioè una cultura impostata secondo un radicalismo di destra, un'ideologia autoritaria, nazionalista che portava a enfatizzare le disuguaglianze. È solo di un decennio fa, 1972, l'importazione in Italia e la traduzione del profilo, G. Papini (Parigi, 1963) dello scrittore Vintila Horia, fuoriuscito rumeno, che interpreta a tesi e valorizza nell'opera papiniana la dimensione ideologicamente tradizionalista del «rivoluzionario cristiano», inquadrandola nell'odierno tentativo di recuperare un retroterra culturale alla «destra nazionale». Eppure proprie, quest'ultima ragione ispira e determina la monografia Papini di Mario Isnenghi (Firenze, La Nuova Italia, 1972) e Reazionaria. Antologia della cultura di destra in Italia, 1900-1973 a cura di P. Meldini (Firenze, Guaraldi, 1973).
Rileggere oggi Papini, per Isnenghi e Meldini, significa compiere un «lungo viaggio attraverso il pensiero reazionario del Novecento in Italia». Se mai la differenza sta nelle intenzioni. Che presso Meldini sono ancora polemiche piuttosto che critiche; nella sua antologia due brani di Papini tratti da «Lacerba», e reintitolati Invito al massacro (1914) e Una guerra per buongustai (1915), figurano nella sezione Il bellicismo per dimostrare la «profonda avversione antipopolare» e l'uso antipopolare della guerra praticato da Papini. Diversa l'intenzione di Isnenghi, il quale cerca di approfondire e riconoscere nell'autore della Storia di Cristo l'intellettuale a suo modo militante, «militante volubile, ecletticamente disponibile a contenuti ambivalenti e reversibili, ma il più delle volte, d'una "radicale", e ín particolare radical-reazionaria».
Quella che ancora circola è invece l'immagine di un Papini lirico e idillico malgré lui. E il volto dell'«altro» Papini «gaudioso», ricco di una sua intima generosità esercitata nella vita semplice e comune degli affetti (quale risulta dall'antologia Io, Papini, a cura di C. Bo, Firenze, Vallecchi, 1967), illuminato dall'eroico e silenzioso martirio, quando vecchio e cieco, immobile su una poltrona, detta le Schegge (postume, Vallecchi, 1971). Ma questa immagine, dimidiata e imprevista, a frammenti e barlumi, anche se lascia percepire qualcosa di autentico e umanamente profondo, «l'amore della vita, il bisogno della poesia. il lungo e disperato inseguimento di Dio», sotto il peso di tanta carta che è stata la condanna e la salvezza dello scrittore, si regge a patto di disattendere i libri di maggior successo, vale se passiamo sotto silenzio la Storia di Cristo e il Dante vivo, il Giudizio Universale e Michelangelo. Cosa che francamente oggi non sembra né possibile né produttiva, proprio in sede di quella più serena revisione del dossier Papini, autorizzata e richiesta dal volgere e dal mutare dei tempi.


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