Giovanni Papini
dalla filosofia dilettante al diletto della filosofia
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Papini — si è già detto — aveva una naturale predisposizione per il pragmatismo e, fin da giovanissimo, oltre a progettare e meditare un'opera sulla conoscenza e a scrivere continuamente aforismi sulla gnoseologia 45, si era occupato — diversi anni prima di diventare pragmatista — del “cuore” teorico della dottrina: la previsione 46.
46 Ricordo a latere che è proprio per questa sua ricerca sulla previsione che Giovanni Vailati, interessandosi dello studio, divenne suo grande amico. Così ricorda l'evento Paolo Casini: «Giovanni Vailati lesse l'estratto che Papini gli aveva inviato e dichiarò il suo accordo di massima, ampliando però la questione: “l'attitudine a prevedere [...] costituisce l'essenza e il fine specifico della ricerca scientifica in genere”. Citò Brentano e Comte a sostegno del fatto che “anche tutte le applicazioni tecnologiche e industriali della scienza non sono che casi particolari del prevedere”; ma impartì con garbo una lezione di metodo, sollevando riserve su certe distinzioni e frasi tecniche usate impropriamente da Papini». (P Casini, Papini, la psicologia e i filosofi, cit., p. 45.
Previsione o volontà di dominio?
Nell'Introduzione di Luigi Baldacci al “Meridiano” delle opere papiniane, il curatore — precisando la comune matrice di pragmatismo e futurismo in Papini — scrive: «Quando poi si osservi che Il crepuscolo dei filosofi sarà ricordato nell'esperienza futurista come documento decisivo di futurismo antemarcia, si capirà anche meglio come il pragmatismo e il futurismo di Papini avessero una radice unica, cioè una sola imperialistica volontà di dominazione. Se per Vailati il pragmatismo era un metodo (per la scienza, per la storia della scienza e delle scienze, per ogni nuova acquisizione di conoscenza, era cioè una filosofia come metodo), per Papini esso è un metodo per fare a meno della filosofia» 47. E Papini — per sua stessa ammissione — aspirava a una maggiore potenza della volontà e a un'efficacia diretta dello spirito sulle cose.
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Magismo esoterico?
Effettivamente, «un'infarinatura di occultismo o di spiritualismo — dice Simona Cigliana — faceva parte della formazione culturale di quasi tutti gli intellettuali dell'epoca: pochi potevano affermare di non aver mai letto Schuré, di non essersi, neppure occasionalmente, interessati ai lavori di una delle tante commissioni scientifiche di inchiesta sui fenomeni paranormali, di non aver mai partecipato a una seduta spiritica. Ma le “nuove sorgenti" additate dal “Leonardo”, nell'interpretazione che Papini e Prezzolini via via si rivelarono inclini a proporre, erano utilizzate per indicare, ora, un modo tutto particolare di porsi rispetto a quei fenomeni che venivano presentati come prefigurazione di capacità iscritte nell'orizzonte umano e prossime a divenire patrimonio acquisito, se non per tutti, almeno per quell'aristocrazia del pensiero e della volontà che sapesse conquistarsele» 48. Lo stesso Papini, tornando a riesaminare gli anni del «Leonardo», ammetterà: «Il famoso pragmatismo non m'importava già quale regola di ricerca, cautela di procedimento e raffinamento di metodi. Io guardavo più in là. In me sorgeva allora il sogno taumaturgico: il bisogno, il desiderio di purificare e rafforzare lo spirito per farlo capace d'agir sulle cose senza strumenti e intermediari e giunger così al miracolo e all'onnipotenza. Attraverso la “volontà di credere” tendevo alla “volontà di fare” — alla possibilità di fare. Se la volontà potesse estendere il suo cerchio di comando dal corpo proprio alle cose che lo circondano — e far sì che tutto l'universo fosse il suo corpo, obbediente in ogni sua parte a un ordine suo come ora son obbedienti questi pochi fasci di muscoli! Fingevo di partire da un precetto di logica [pragmatismo] ma l'anima più segreta mia era assetata e invidiosa della divinità» 49.
Da questo passo la Cigliana ha concluso che: «Attingere a un potenziale di forze occulte, sfidare l'ignoto, immensificare l'Io: ecco la grande tentazione di questi giovani, che ambivano essere parte agente del mondo, volevano ridestarne aspetti insondati e possibilità segrete. Non per niente Papini sottolineava che l'opera più importante svolta dal “Leonardo” era stata “questa rieducazione
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degli italiani alla audacia, alla coscienza di sé, alla scoperta, alla temerarietà”, una temerarietà che, secondo Prezzolini, doveva condurre al “misticismo della conquista, dell'Imitazione di Dio”» 50.
Non a torto, anche il Garin ha parlato di quel “primato della volontà portato ai confini della magia” 51.
Eppure, «A vent'anni — dice Baldacci — nel 1901, aveva cominciato con la comunicazione letta alla Società Italiana di Antropologia sulla Teoria psicologica della previsione 52
52 G. Papini, La teoria psicologica della previsione, in Archivio per l'Antropologia e l'Etnologia, vol. XXXII, fasc. 2°, 1902. Ora in Tutte le opere, cit., pp. 1291-1321.
in cui (e vale ricordare la frequentazione di un positivista eterodosso e intelligente quale fu l'antropologo Ettore Regàlia) il positivismo degli anni più acerbi già lasciava intravedere lo sbocco in quel pragmatismo che sarebbe stato, rispetto alla teoria ufficiale, un'altra cosa, ma fu certo e comunque una cosa sentita»
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Questa comunicazione, squisitamente scientifica, sulla previsione era la prima di una breve — ma memorabile — serie di relazioni presentate da un Papini, sembra paradossale dirlo, di “marca” positivista. Comunicazioni importanti nell'itinerario papiniano, tanto che spesso le ricordava con sincero affetto, come in Passato remoto 54.
54 Nel capitolo dedicato all'amico Ettore Regàlia (L'asceta osteologo), l'autore ricorda il suo scritto sulla previsione. È un breve accenno, ma quell'esperienza nella vita di Papini, dopo una cinquantina d'anni, non era sprofondata nell'oblio della memoria. Uno dei più celebri demolitori del Positivismo italiano — Papini — ricordava con simpatia, e forse per sembrare critico migliore e assai più esperto, il fatto che anch'egli era stato positivista. Il brillante Regàlia — positivista si, ma eterodosso —, oltre ad aver suggerito proprio il nome di Papini per la nomina di bibliotecario del Museo antropologico al Mantegazza, lo aiutava ed indirizzava nelle ricerche. È evidente che questa amicizia con un positivista sui generis incise molto sul percorso intellettuale papiniano e, dato l'abituale scambio di idee con i positivisti e la consueta lettura dei loro testi, non si può certo dire — come a lungo hanno fatto i benpensanti — che tutte le critiche di Papini al Positivismo siano frutto di fantasie giovanili o dettate da grande ignoranza sui temi e i problemi positivisti. Si legga il ricordo dell'amico Ettore in G. Papini, Passato remoto, Firenze, Ponte alle Grazie, 19442, p. 89.
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Tuttavia, il suo cammino, dopo aver incontrato positivisti di ogni sorta e aver maturato esperienze assai significative, fu decisamente indirizzato verso altri orizzonti.
Dalla fugace esperienza positivista al pragmatismo “magico-psicologico” il passo fu breve, e, tuttavia, solo l'aggettivo “psicologico" sembrava indicare una qualche continuità.
Paolo Casini ci parla de La teoria psicologica della previsione con rigore e completezza nella sua Introduzione a Il non finito. «Entrò qui — dice Casini — nel merito della controversia in corso tra epistemologi contingentisti e psicologi circa il valore predittivo delle “leggi” scientifiche. L'ampia nomenclatura di queste ultime è attinta nell'“enorme volume sulla Psicologia contemporanea” di Guido Villa, una summa enciclopedica che offriva una guida sicura nei labirinti delle varie tendenze tardo-positivistiche 55.
55 «Regàlia — scrive Papini — mi ha regalato il Villa, buon paniere di roba dove si può pescare qualcosa che faccia comodo». Papini a Prezzolini, 7 giugno 1902, in Carteggio, cit., p. 147.
Villa rifiutava la psicologia delle “facoltà” e recepiva la classificazione dei fenomeni psichici di Franz Brentano, mostrando inoltre una netta predilezione per la mind-stuff theory di James ed altri suoi temi: la corrente della coscienza, il primato della volontà, la rivalutazione delle emozioni, la nozione di energia psichica. Sosteneva l'autonomia della ricerca psicologica sia dalla fisica che dalla filosofia e condivideva la proposta di sostituire al termine “legge” quello meno impegnativo di “processo psichico complesso”; senza negare la causalità dei fenomeni della psiche, obiettava a Stuart Mill la loro completa imprevedibilità. A partire da tali spunti, Papini si chiedeva se fosse possibile ammettere in psicologia, come nelle scienze esatte, una regola certa per estrapolare dal flusso presente della corrente psichica gli eventi futuri, mediante un postulato teleologico, un “finalismo preveditivo della organizzazione costruttiva della mente”. Ma come risolvere il “tormentoso problema dell'incosciente o subcosciente che sia”, ossia come ricostruire le connessioni causali che collegano una sequenza di eventi della coscienza, se una parte di questi eventi resta sommersa, per definizione, nelle tenebre dell'inconscio? Come estrapolare gli eventi futuri dagli eventi mentali passati, in gran parte nascosti, e dimostrare il teorema secondo il quale “la previsione è il fine ultimo della costruzione psichica”?37
Nel corso di una complessa argomentazione, la formulazione di un criterio di previsione nella vita psichica è ammessa in termini probabilistici, come “una legge di tendenza”. Nell'uomo come negli animali la capacità di previsione è un momento preparatorio dell'agire in vista di un fine, una funzione indispensabile per soddisfare i bisogni vitali. Essa ha probabilmente il proprio fondamento istologico e fisiologico, sia pure ancora tutto da scoprire, nella “plasticità del tessuto nervoso”; ha insomma, dal punto di vista della biologia, una “funzione protettiva degli organismi”, operante nei processi evolutivi e adattativi della lotta per la vita e della selezione sessuale. I rinvii a Stuart Mill, Spencer, Havelock Ellis, James e altri trattatisti di psicologia e fisiologia mostrano una notevole pratica delle problematiche tardo-positiviste» 56.
Al potere della previsione — criticando al tempo stesso coloro i quali badano soltanto al futuro, dimentichi della vita presente — Papini dedicò una di quelle incredibili Strane storie 57: Lo specchio che fugge 58. Questo racconto, risalente al periodo pragmatista di Papini, è uno di quegli scritti tanto amati da Jorge Luis Borges 59
59 Borges, una delle più autorevoli voci del Novecento in campo letterario, proprio con lo stesso titolo, curò una raccolta di racconti fantastici papiniani: G. Papini, Lo specchio che fugge, a cura di J.L. Borges, Parma-Milano, F.M. Ricci, 1975. Lo scrittore argentino ha pronunciato parole di sincera lode nei confronti di Giovanni Papini. E gli studiosi di quest'ultimo, da parte loro, hanno sempre ricambiato il Borges citando una sua frase: «Sospetto — dice Borges — che Papini sia stato immeritatamente dimenticato» (Lo specchio che fugge, cit., p. 10).
e raccoglie i “fondamentali” intorno alla previsione e al suo valore in ambito scientifico; soprattutto, e questo è davvero importante, ci svela un Papini informato e ben consapevole (forse da un po' di tempo anche disilluso) dei limiti che imponeva e dei danni che arrecava alla vita un'esasperante fiducia nei poteri previsivi.È però al tempo del «Leonardo» — in particolare al tempo del secondo ciclo della rivista — che tutte le idee pragmatiste papiniane trovano libero sfogo sulla carta stampata.
E il vero pragmatismo?
In Italia, «ebbe momenti di grande popolarità e se ne discute
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moltissimo dappertutto — scrive Papini — il “Leonardo” fu ed è citato anche fuori come il rappresentante di quella corrente d'idee nel nostro paese. In quegli anni tutti vollero sapere cosa fosse il pragmatismo; tutti cercarono di appropriarsene o di servirsene» 60. In realtà, dopo qualche anno, gli stessi pragmatisti se ne allontaneranno, e, contrariamente a quanto dice Gianfalco, molti critici si opposero subito alla nuova dottrina, alcuni fecero presente il loro disappunto direttamente agli interessati ed altri lo snobbarono mantenendosi indifferenti. Non c'è da meravigliarsi di ciò, infatti, dal “Leonardo” duramente si attaccavano un po' tutti, soprattutto i positivisti, e indistintamente si osteggiavano anche i consigli degli amici. Il gruppo della rivista, se si eccettua la direzione, fu assai mutevole ed eterogeneo, infatti, i repentini scioglimenti e le affrettate ricomposizioni caratterizzarono la sua evoluzione e, per certi versi, la sua fortuna.
Si può ampiamente dare ragione al Papini “storico” del movimento quando afferma che “non bisogna poi credere che i pragmatisti italiani non facessero altro che riesporre e propagare le idee che venivano dall'America e dall'Inghilterra” 61, infatti, dai contributi dei nostri pragmatisti arrivarono effettivamente chiarimenti, svolgimenti e proposte di una certa rilevanza. Invece, si deve in parte dissentire da Papini quando afferma che “presso di noi il pragmatismo si divise quasi nettamente in due sezioni: quella che si potrebbe dire del pragmatismo logico e quella del pragmatismo psicologico o magico” 62. In effetti si trattò di due schieramenti distinti più sul piano amicale che su quello teorico. I pragmatisti, se ebbero davvero un denominatore comune in grado di accomunarli, lo ebbero nell'essere filosoficamente autodidatti. Ognuno di loro, però, si fece realmente promotore di una visione autonoma e personale di pragmatismo: non sembri un'esagerazione né una forzatura, ma ci furono in Italia tanti pragmatismi quanti pragmatisti. Nessuno ha poi notato (compreso lo stesso Papini) il fatto che — se lo schieramento italiano fosse stato davvero composto da due diverse correnti — avrebbe perso molta della sua “forza” chiarificatrice la “teoria del
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corridoio" dello stesso Papini (di cui parleremo fra poco). Due pragmatisti in una medesima corrente e quindi l'esistenza di vari schieramenti potrebbero infatti smentire l'idea di "un pragmatismo per ogni pragmatista", sostenuta proprio da Gianfalco. Papini — con l'affermazione precedente — ha involontariamente creato una specie di "luogo comune" da dare in pasto a studiosi in malafede o poco attenti. Molto si è congetturato — nel bene e nel male — proprio sulle divisioni interne al movimento, ma pochi, probabilmente, hanno colto nel segno. E siccome la parola è il segno dell'idea, vuol dire che una certa storiografia senza idee non ha fatto altro che ripetere meccanicamente alcuni segni, dimenticando di valutare sia l'attendibilità che la correttezza di certe sue interpretazioni.
Andiamo oltre.
Papini, nonostante le sue peregrinazioni di movimento in movimento, fu pragmatista tutta la vita. Nel 1913, egli scriveva che — almeno dal 1903 — nel suo pensiero "sono stati sempre fermi alcuni punti che sono poi il succo del Pragmatismo: cacciata dei problemi senza senso e delle frasi vaghe — studio e riforma degli strumenti di pensiero — tendenza al particolare e al pluralismo piuttosto che all'universale e al monismo — aspirazione a una maggiore potenza della volontà e ad un'efficacia diretta dello spirito sulle cose" 63. Oggi, noi possiamo affermare che questi gangli da lui enucleati li portò sempre con sé e con una certa fierezza. Prezzolini, a dir il vero, un po' meno. Difatti, Giuliano il Sofista, una volta passato nelle fila dello schieramento idealista, ben presto si pronunciò negativamente sul pragmatismo, dottrina alla quale — per sua stessa ammissione — aveva aderito a causa di un errore giovanile. Ma di questo mi occuperò in un'altra sede.
Nella prospettiva papiniana, a mio avviso realmente antitetica rispetto a quella prezzoliniana, lo spirito pragmatista era infatti definito in questi termini: "Spirito che consiste nel badare più alla chiarezza che all'enfasi, al fatto che all'astrazione, alla pratica che alla speculazione" 64. E chi conosce gli scritti di Prezzolini, alla luce di tale definizione, potrà anche non considerarlo — e direi legittimamente — un pragmatista; invece, chi non ha avuto ancora il piacere
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di leggerli, per cogliere la distanza del Prezzolini dal genuino spirito pragmatista, potrà iniziare col fidarsi del calzante pseudonimo "Giuliano il Sofista".
Calderoni e Vailati avrebbero sottoscritto tutto quello che di Papini ho fin qui riportato, ma avrebbero sottoscritto o sottoscrissero tutto ciò che disse il loro amico intorno al pragmatismo? No di certo. Quindi, evidentemente, c'è una distanza tra Gianfalco e Calderoni-Vailati.
Tra loro molto più vicini che i due direttori del «Leonardo», Calderoni e Vailati, pur essendo d'accordo sul nucleo della dottrina, si occuparono di applicare la massima pragmatista in ambiti assai diversi e non si può dire, quindi, che gli esiti furono i medesimi. Insomma, ognuno ci mise del suo.
Gianfalco va alla ricerca dei limiti delle varie dottrine e degli errori dei filosofi e tiene a precisare che "finora le critiche che si son fatte alla filosofia sono state parziali, limitate ad una teoria, a un sistema, a una scuola, a un indirizzo. Quanto alla parte costruttiva si è pensato piuttosto a dare un nuovo sistema che a tramutare da' fondamenti ogni filosofia; a fare qualcosa di definitivo piuttosto che d'iniziale" 65. Di seguito, sottolinea la molteplicità delle sue intenzioni: "Diversi sono i miei propositi" 66.
Ed ecco quali sono:
1) ricercare il valore della filosofia e non di alcune filosofie;
2) rinnovare completamente il compito e il contenuto, conservando il nome di filosofia solo per comodità di tradizione verbale. Per giungere a questi scopi è necessario:
1) riconoscere quali sono le aspirazioni, i caratteri essenziali della filosofia;
2) esaminare i dati, i mezzi, gli strumenti della filosofia per vedere se le sue aspirazioni son raggiungibili;
3) studiarne i prodotti per scoprire se fossero state raggiunte (ricerche critiche sui tre maggiori problemi filosofici: il cosmologico, lo gnoseologico e l'etico).
Ciò che balza in primo piano, in particolar modo a coloro i quali
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conoscono l’intero percorso papiniano, è la mancanza del problema estetico tra i maggiori problemi filosofici elencati dal giovane pragmatista. Con il passare del tempo, infatti, le questioni ermeneutiche dell’ambito estetico assumeranno un ruolo centrale nella prospettiva papiniana, per non dire poi, che, qualche anno dopo, sarà tra i protagonisti di un movimento filosofico, essenzialmente artistico: il Futurismo.
Poi, Papini spiega il “perché” dello “scacco” verso cui, a suo avviso, è sempre andata incontro la filosofia; difatti: “i dati di cui la filosofia si giova non permettono in nessun modo la soddisfazione della sua triplice volontà di essere razionale, universale e rivelatrice di realtà: la filosofia s’è illusa ed è rimasta sconfitta” 67.
Non prenderei alla lettera quest’ultima (e un po’ troppo radicale) affermazione di Papini, d’altronde assieme alle critiche mosse contro la filosofia, ci sono tante ricette per correggere la sua constatata deriva.
Ecco, secondo il Nostro, quali sono i segnali del declino:
1) la sterilità (la fecondità filosofica è una leggenda: i motivi filosofici si riducono a tre o quattro, ma oggi sono esaurite tutte le formule, le combinazioni, i rifacimenti. Si vive sul passato, facendo della storia o delle variazioni di nomenclatura);
2) l’assunzione di forme artistiche (passionalità, metafore ecc. che mostrano la tendenza a confondersi e perdersi in altra forma d’attività);
3) le preoccupazioni pratiche che vanno crescendo e ingenerano uno spregio sempre maggiore per le riflessioni e meditazioni che non offrano immediata utilità;
4) l’interiorità crescente (misticismo, vita intima, diffidenza dell’espressione, moto antirazionalista);
5) il ritorno a posizioni primitive che indica la fine della parabola filosofica (le conclusioni più recenti riportano a stadi prefilosofici o della prima filosofia: animismo in metafisica; indimostrabilità della legge morale in etica; realismo ingenuo in gnoseologia ecc. 68).
E poi Papini avanza delle proposte… e i suoi “tentativi di salvataggio”:
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disumanizzare il filosofo, trasformare la mente e modificare il linguaggio 69.
Alla fine conclude dicendo: “Parrebbe che non ci fosse via di scampo, ma invece ve ne son due. La filosofia non deve morire e continuerà a vivere in due modi: 1) com’è ora, in forma di tre sopravvivenze (documento, giuoco, scudo); 2) in altra forma, mutandole radicalmente gli spiriti e i fini (sorpassamento della filosofia)” 70.
Personalmente, non posso che invitare il lettore a ripercorrere le argomentazioni papiniane in cui si spiegano le tre forme possibili di sopravvivenza per la filosofia 71, e mi limito a ripetere con Papini: “i filosofi vogliono spiegare tutto, ma in generale non si curano di spiegare loro stessi e la loro filosofia” 72. Desideroso di novità, di obiettivi originali e proficui e, come dirà nell’ Uomo finito, “smanioso di vastità e completezza”, afferma: «Se la filosofia non può andare verso le vecchie mète, troviamone delle nuove» 73. Ecco cosa ci propone – a dire il vero con poca originalità – sull’onda dell’entusiasmo con il suo pragmatismo… “Una sola ambizione conserveremo: il possesso intero della realtà” 74. E siccome per Papini è giunto il momento di “fornire alla filosofia un carattere suo particolare, un quid suo proprio” 75 ci suggerisce quale dovrà essere il compito precipuo della filosofia: «Farà quel che nessuno fa o vuol fare, ha trovato la sua missione originale: sarà la ricerca e la scoperta del particolare» 76.
E adesso la sua filosofia diventa una “filosofia dell’azione” e si scaglia contro la concezione dello “spettatore”, questione antica quanto la stessa filosofia. Quindi, Papini si domanda: «Ora dobbiamo essere noi dei semplici spettatori del mondo? Perché, dopo che abbiamo scoperto la tendenza del mondo, non cerchiamo di contrastarla, di impedirla, non ci facciamo attori ed autori?» 77.
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E cosa ci propone Gianfalco?
«Il rimedio consiste nell’andare contro ai mezzi che fanno prevedere il finale annullamento: l’universale e il riposo così movendo verso il particolare e l’azione la filosofia tenta di salvare il mondo, da teoria diviene azione» 78.
È un’apologia della pratica per biasimare coloro i quali assolutizzano la dimensione teorica? Ma siamo poi sicuri che attraverso qualche appello alla pratica ci si discostava e si progrediva rispetto a coloro i quali praticano la sola teoria? Non bisogna dimenticare che Papini sapeva di poter incorrere in questo pericolo e continuava a precisare e specificare: «Mentre finora il pensatore assumeva rispetto alle cose un’attitudine quasi passiva, conoscitiva, teorica, ora deve assumere un’attitudine attiva, pratica. Non deve solo conoscere e accettare il mondo, ma deve salvarlo, trasformarlo, ed accrescerlo» 79. Siamo nel 1903, quando ancora Papini non parlava, almeno pubblicamente e sulle riviste, dell’Uomo-Dio (che troviamo appunto in Dall’uomo a Dio del 1905), ma è già tutto ampiamente prefigurato nel secondo dei contributi sul pragmatismo fin qui citati – Morte e resurrezione della filosofia –. Nel rimarcare la distanza fra ciò che storicamente hanno cercato di fare i filosofi e ciò che si dovrebbe invece fare a suo avviso in filosofia, ci dice che: «Mentre lo sforzo dei maggiori metafisici è di mettere la volontà nel concreto (volontarismo: Schelling, Schopenhauer, Wundt, Paulsen ecc.) ci dobbiamo proporre di render concreta la volontà, cioè di render reali esternamente i nostri desideri (sogno magico che passa in filosofia). Così l’uomo non solo colla creazione della verità, dell’infinito e della legge si fa Dio (Goethe, Fichte, Feuerbach, Stirner, Comte, Hazard, Maeterlinck), ma anche coll’oggettivazione concreta del suo desiderio, colla creazione della realtà» 80.
In breve, l’uomo deve farsi Dio.
Altrimenti, non solo la filosofia muore, ma l’uomo non conosce la vita e non l’assapora nemmeno. Questa filosofia era una filosofia poetica riscontrabile in un Papini che ad altri appariva come non proprio pragmatista? Era, in ogni caso, la filosofia di Gianfalco,
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consapevole della natura del suo filosofare: «Così invece della filosofia diranno che facciamo della letteratura filosofica o della filosofia letteraria. I filosofi ci schiacceranno perché siamo amanti delle intuizioni e i poeti non vorranno saper di noi, come troppo amanti dei concetti» 81. E non aveva tutti i torti, infatti, le critiche iniziarono a “piovere” (e continuarono a piovere per molti anni) da entrambi i fronti.
La Morte e resurrezione della filosofia si conclude con una frase divenuta celebre tra gli studiosi di Papini e che, per certi versi, riassume non solo l’egoità del suo autore, ma, probabilmente, il travaglio di una intera epoca: «Mentre in genere i filosofi aspirano a fare qualcosa di stabile, di ultimo, di definitivo (Hegel, Comte, ecc.) io tengo soprattutto a fare qualcosa di iniziale, ad aprire una strada nuova ove altri, forse, camminerà e correrà» 82. Dopo l’ardore del passo citato non si può tacere sulle conseguenze morali che il Papini attribuisce alla dottrina pragmatista: «Questa nuova concezione della filosofia in generale e della metafisica in particolare porta alla necessità della distinzione, della separazione, della non fusione, della lotta ecc. cioè ad una morale individualista. La morale dell’altruismo (amore, fusione, annientamento) è contraria a tutto lo spirito di questa filosofia» 83. Beh, ciò testimonia che ognuno dei pragmatisti utilizzava il pragmatismo a modo suo, traeva le conseguenze più personali che desiderava e poteva – avendo a che fare sostanzialmente con una metodologia – pronunciarsi in maniera diversa sulle stesse questioni o giungere ad esiti diversi partendo dalle stesse premesse.
Quindi, era una filosofia? Non saprei.
Per ciò che concerne la presunta antiteticità di altruismo e pragmatismo menzionata da Papini, basterà leggere gli scritti di Vailati, Calderoni, Peirce o James, per capire che si trattava soltanto di un’idea bislacca che il Papini sostenne solo inizialmente. Dopo aver cercato in precedenza di definire una nuova concezione della filosofia attraverso la critica delle vecchie metafisiche e delle vecchie filosofie, Papini concentra su alcune questioni la propria analisi
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del pragmatismo e saltano fuori alcune idee davvero interessanti per lo studioso del movimento.
Il pragmatismo è indefinibile! 84.
84 Peirce, che al pari di James, stimava molto Papini, a proposito di questa sua tesi disse: «Giovanni Papini va un passo oltre Schiller nel sostenere che il pragmatismo è indefinibile. Ma questa mi sembra una frase letteraria. In sostanza, ammiro molto la presentazione fatta da Papini» (Ch.S. Peirce, Scritti scelti, cit., p. 624).
“Chi desse in poche parole una definizione del pragmatismo farebbe la cosa più antipragmatista che si possa immaginare. Chi tentasse, infatti di accerchiare in una breve frase tutte le tendenze e le teorie che lo formano otterrebbe per forza qualcosa di generico e d’incompleto mentre non c’è niente che i pragmatisti disprezzino tanto come l’indeterminato e il vago” 85.
85 Peirce, che al pari di James, stimava molto Papini, a proposito di questa sua tesi disse: «Giovanni Papini va un passo oltre Schiller nel sostenere che il pragmatismo è indefinibile. Ma questa mi sembra una frase letteraria. In sostanza, ammiro molto la presentazione fatta da Papini» (Ch.S. Peirce, Scritti scelti, cit., p. 55).
Per Papini – che in parte seguiva il James – “una delle massime più care ai pragmatisti è questa: che il senso delle teorie consiste unicamente nelle conseguenze che ne aspettano quelli che le credono vere” 86.
86 Peirce, che al pari di James, stimava molto Papini, a proposito di questa sua tesi disse: «Giovanni Papini va un passo oltre Schiller nel sostenere che il pragmatismo è indefinibile. Ma questa mi sembra una frase letteraria. In sostanza, ammiro molto la presentazione fatta da Papini» (Ch.S. Peirce, Scritti scelti, cit., pp. 56-57).
Quanta distanza dal Peirce, quanta distanza!
Il filosofo dei Collected Papers – ecista del movimento – aveva in mente tutt’altro, un diverso metodo, oltre che finalità e obiettivi assai eterogenei rispetto a Gianfalco.
«Il pragmatismo – scriveva Peirce – in sé non è una teoria metafisica né un tentativo di determinare una qualche verità delle cose. È solo un metodo per accertare i significati di parole difficili o di concetti astratti» 87. E continuava dicendo che: «[…] il metodo di accertare i significati delle parole e dei concetti coincide con il metodo sperimentale attraverso il quale tutte le scienze che hanno conseguito dei risultati (nel cui numero nessun essere ragionevole includerebbe la metafisica) hanno raggiunto i gradi di certezza che sono propri di ciascuna di esse oggi; questo metodo sperimentale non è infatti altro che un’applicazione particolare di una regola logica molto più antica: “Dai loro frutti li riconoscerete” [Mt. 7, 20]» 88.
Su questi punti, secondo Peirce, i pragmatisti sarebbero stati
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d’accordo, ma egli precisava: «Io concepisco il pragmatismo come un metodo per accertare i significati, non di tutte le idee, ma solo dei “concetti intellettuali”, dalla cui struttura dipendono gli argomenti che riguardano un fatto oggettivo» 89. Lo stesso Peirce, forse con rammarico, affermava anche che: «William James definisce il pragmatismo come la dottrina secondo la quale l’intero “significato” di un concetto si esprime o in forma di condotta da seguire o di esperienza da aspettarsi» 90. Invece, per il fondatore del pragmatismo: «Il nocciolo del pragmatismo è questa proposizione: il significato totale della predicazione di un concetto intellettuale consiste nell’affermare che in ogni circostanza di un dato tipo, il soggetto di una predicazione si comporterebbe (o non si comporterebbe) in un certo modo, cioè sarebbe vero che in date circostanze esistenziali (o in una data proposizione di esse, prese per come esse capiterebbero nell’esperienza) certi fatti esisterebbero. Detto in modo più semplice, l’intero significato di un predicato intellettuale è che certi tipi di eventi capiterebbero, una volta o l’altra, nel corso dell’esperienza in certi tipi di circostanze» 91.
Eppure, su “chi fosse da considerarsi pragmatista”, sia il Peirce che il Papini avrebbero potuto trovare un accordo, infatti, nel profilo tracciato da Gianfalco del “pragmatista tipo” si possono trovare tanti aspetti del pensiero peirciano.
Di cosa si occuperà il pragmatista? Cosa dobbiamo aspettarci da un pragmatista?
«Egli cercherà – dice Papini –, in ogni modo, di non occuparsi di una gran parte dei problemi classici della metafisica (in particolare della spiegazione universale e razionale del tutto) che sono, per lui, problemi inesistenti e privi di senso – e invece si occuperà moltissimo dei metodi, degli strumenti della conoscenza e dell’azione, perché sarà persuaso che è molto più importante migliorare o creare dei metodi per ottenere previsioni esatte o per cambiare noi stessi o gli altri che giocherellare con parole vuote intorno a problemi incomprensibili. Le sue simpatie saranno per la ricerca del particolare; per lo sviluppo della previsione, per le teorie precise e ben
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determinate; per quelle che servono quali migliori strumenti per i fini più importanti della vita; per la concisione, per l’economia del pensiero ecc. Le sue antipatie, naturalmente, andranno a tutte le forme di monismo; a tutte le frasi universali senza significato o con troppi significati; alle chiacchiere oscure su questioni assurde e inconcepibili; alla pretesa evidenza ed intuitività dei principi; alla fede nella verità unica e immutabile; a ogni teoria agnostica che scambia il non senso per inconoscibile; a tutto ciò che non cambia, che non si adatta, che vuol regnare in nome del diritto divino dell’Assoluto; al rispetto e all’obbedienza dinanzi alla famosa “realtà” dell’uomo comune e dell’empirista terre à terre. Il pragmatista, cioè, ha un eguale disprezzo per quelle dottrine che pretendono spiegare tutto il mondo con tre o quattro frasi misteriose in nome di qualche principio unico e per quelle che si attaccano umilmente ai fatti bruti come ce li dà l’esperienza senza cercare di cambiarli – né in teoria (empirismo utilitarismo ristretto del buon senso) né in pratica (morale della rassegnazione delle leggi di natura). Invece lo vedremo animato da un certo spirito entusiasta per tutto quello che dimostra la complessità, e molteplicità delle cose; per quello che accresce il nostro potere di modificare il mondo; per tutto ciò ch’è unito più strettamente colla pratica, l’azione, la vita» 92.
Nel tracciare un profilo del pragmatista, Papini può essere vicino ai pragmatisti logici, ma – al tempo stesso – assai lontano dall’amico Giuliano il Sofista. Sempre più netta si fa la distinzione tra i due e sempre meno corretta appare un’unica denominazione per le loro due forme di pragmatismo.
Quando Prezzolini rispose sul “Leonardo” a Mario Calderoni – di seguito a Le varietà del pragmatismo – tracciò anch’egli un particolare ritratto del pragmatista tipo, un profilo non soltanto senza un volto, ma dai contorni tanto sfumati che la dottrina pragmatista poteva al massimo valere in sede antropologica: tutti sono più o meno pragmatisti!
«Dalla donnicciola del volgo che dice di credere al paradiso per consolarsi del male presente fino a Pascal con la sua complicata apologia del cristianesimo, dal politico che accetta la religione come legame sociale utile per quanto falso, fino ai gesuiti che fanno la teoria
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del “fine giustificante i mezzi”, si può dire che tutti gli uomini sono stati più o meno segnati dal prammatismo. Se questo fosse stato illusorio, non sarebbe forse stato cacciato via dalla esperienza?» 93.
Alla domanda se il pragmatismo è o meno una filosofia, Papini risponde che non è una filosofia, se per filosofia intendiamo una metafisica 94.
“Per il pragmatista – secondo Gianfalco –, dunque, non c’è un’ipotesi metafisica che sia più vera di un’altra. Chi ha bisogno di averne una può sceglierla a seconda dei suoi fini e dei suoi gusti ideali ma non deve troppo illudersi che la sua possa esser riconosciuta la più solida, la più sicura, la più provata e dimostrabile. Il pragmatismo non contiene, perciò, nessuna metafisica né palese né implicita” 95.
Da quello che di Papini fin qui si è riproposto, sembra chiaro il fatto che nella sua prospettiva “Il pragmatismo, piuttosto che una filosofia, è un metodo per fare a meno della filosofia” 96.
Quindi, mentre i pragmatisti logici – Vailati e Calderoni – sentivano la necessità di rivedere i loro rapporti con la tradizione filosofica precedente e, pur essendo severi critici del positivismo, si sentivano comunque eredi di un positivismo più critico rispetto a quello di moda, a Papini sembrava più corretto, o più adatto all’identità di ribelle che si era costruito, dichiararsi in rotta di collisione con la tradizione filosofica.
Prezzolini era incredibilmente vago, per Giuliano il Sofista (comunque consapevole e strenuo difensore delle sue posizioni) “bisogna dunque dire che il prammatismo è qualche cosa di più che una filosofia e qualche cosa di meglio che un metodo; esso è una delle attività dell’animo. L’animo umano è prammatista più di James, e lo è stato prima di Peirce. Il quale del resto ha torto nel voler troppo chiarificare le nostre idee per fini pratici, quando tutto il linguaggio volgare gli mostra che dei fini pratici vale più la vaghezza che la precisione; quando i fini pratici non hanno affatto bisogno delle parole chiare per eccellenza, cioè delle matematiche” 97.
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Ma prima di parlare del rapporto tra pragmatismo e positivismo, è necessario soffermarsi su uno degli aspetti del pragmatismo – secondo me molto interessante – che, nella prospettiva di Gianfalco, viene assai enfatizzato: il carattere “pluralistico”.
Questa precisazione papiniana – conseguenza della sua “teoria del corridoio” – è di una certa rilevanza se si tiene conto del periodo nel quale fu pronunciata (e di quanto detto in precedenza sull’altruismo).
“Moltissimi – avverte Gianfalco – non si sono ancora accorti che non esiste il pragmatismo ma che ci sono soltanto delle teorie pragmatiste e dei pensatori più o meno pragmatisti […]. Quello di libertà e di non rigidità che i pragmatisti hanno scoperto nelle scienze è anche nella loro dottrina” 98.
Già, più di un anno prima, Papini aveva sostenuto che il pragmatismo era un insieme di metodi, «anzi, per una certa parte, il perfezionamento, il raffinamento e il completamento del metodo positivo e perciò uno dei suoi tratti caratteristici è quello della neutralità armata. Esso, cioè, non decide su nessuna questione, ma dice soltanto: dati certi fini vi consiglio di adoperare certi mezzi piuttosto che certi altri. Esso è, dunque, una teoria corridoio – un corridoio di un grande albergo, ove sono cento porte che si aprono su cento camere. In una c’è un inginocchiatoio e un uomo che vuol riconquistare la fede – in un’altra uno scrittoio e un uomo che vuole uccidere ogni metafisica – in una terza un laboratorio e un uomo che vuol trovare dei nuovi “punti di presa” sul futuro… ma il corridoio è di tutti e tutti ci passano: e se qualche volta accadono delle conversazioni fra i vari ospiti nessun cameriere è così villano da impedirle» 99.
Si accennava, in precedenza, il diverso legame che i vari pragmatisti instaurarono con la tradizione positivista. Naturalmente, e ciò è noto a tutti, sia i pragmatisti (considerati indistintamente) che gli idealisti contribuirono a far calare il sipario sulle irrigidite maschere del positivismo italiano. Però, non tutto era da buttare, anzi – in realtà – molto fu salvato. Molti di quei giovani assalitori, chi per un verso chi per un altro, con il passare del tempo, tornarono a rivalutare il positivismo.
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Vailati e Calderoni – forse anche per la loro garbata e prudente indole – mai condannarono la filosofia positiva in generale. Tra i filosofi di parte idealista, Croce addirittura condannò la scomposta reazione di quell’inizio di secolo contro la cultura positivista, perché, a suo avviso, si trattava sostanzialmente di un’ondata di irrazionalismo. Peccato che nell’elenco crociano di coloro i quali reagirono al positivismo manca proprio il nome del Croce.
Nella maturità, il filosofo di Pescasseroli sconfessò con l’arma del “silenzio” – defilandosi – la sua partecipazione alla “rivolta antipositivista”. Infatti, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 le critiche ai giovani insofferenti dell’accademismo positivista erano di questo tenore: «Nell’ambiente preparato dal D’Annunzio e dalla invadente psicologia plutocratica, che ricerca le cose vistose, luccicanti e in fondo grossolane, si svolse dunque, in Italia, la filosofia di reazione al positivismo; e perciò la tendenza, che essa prese contro quel superficiale razionalismo più sodo e verace, ma nella maggior parte, sotto molteplici e spesso ingannevoli forme, verso l’irrazionalismo, quantunque solesse e battezzarlo e crederlo “idealismo”, combinando un “idealismo irrazionalistico” o uno “spiritualismo sensualistico”. Filosofie di tal fatta si susseguirono e si avvicendarono e si mescolarono: l’intuizionismo, il pragmatismo, il misticismo (e questo ora francescano o slavo o buddistico, ora modernistico o cattolicizzante, erotico-dannunziano o erotico-fogazzariano), il teosofismo, il magismo e via dicendo, compreso il “futurismo”, che era, anche quello, una concezione o interpretazione della vita, e perciò, a suo modo, una filosofia. Se si ha voglia di rivedere questo spettacolo da caleidoscopio, si ricerchino le riviste di quel tempo, particolarmente le giovanili, più sensibili alla moda e per tal riguardo più significanti, il “Leonardo”, che venne fuori a Firenze dal 1903 al 1907, “Prose”, “L’Anima”, fino via via a “Lacerba”, opera in parte dei medesimi scrittori, che fu dal 1913-14. In tutte esse, pure tra qualche tentativo di raffrenarla o di opporvisi o di temperarla mercè pensieri di diversa origine, si vedeva chiara la conseguenza che è propria dell’irrazionalismo, cioè l’indebolito o fiaccato sentimento della distinzione tra verità e non verità nella cerchia teoretica, tra dovere e piacere, moralità e utilità nelle cose pratiche, tra contemplazione e passione, poesia e convulsione, gusto artistico e libito
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voluttuario nel campo estetico, tra spontaneità e indisciplina, originalità e stravaganza nella vita culturale. Tolti i freni logici, depresso il senso critico, scossa via la responsabilità che è nella razionale affermazione, il giuoco dell’immaginazione e di una nuova retorica si presentava agevole e seducente, e ne davano saggio tuttodì gli spasimanti dell’arte, segnatamente delle arti figurative, educati nell’estetismo dannunziano degli anni innanzi, ispirati veggenti o piuttosto artificiosi visionari, sacerdoti della pura bellezza, che essi celebravano ora in sensuali figurazioni ora in frigidi simboli, ignari che bellezza è irradiazione nella fantasia degli umani affetti e travagli, e perciò cosa grave e severa, da cuori virili» 100.
100 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 20042, pp. 313-315.
Papini, dal canto suo, polemizzando con Calderoni, sottolineava la difficoltà di chiarire il rapporto tra il pragmatismo e il positivismo.
Nel 1906 scriveva: «Infatti ci sono certuni che sostengono – o per timidezza, o per ignoranza – che il Pragmatismo non è che una forma o una leggera ritoccatura del Positivismo. Naturalmente c’è chi dice che si tratta di un perfezionamento e chi di un peggioramento. Mario Calderoni, per quanto affermi che il nome di Pragmatismo esprime “realmente un progresso compiuto sulla concezione del positivismo” pure afferma “l’identità fondamentale delle due dottrine e non vede nella lotta del Peirce contro le questioni prive di senso che una semplice continuazione della lotta dei positivisti contro la metafisica. Su questo punto io non penso come il Calderoni e mi stupisco che un amante appassionato delle distinzioni come lui non veda quali differenze ci siano tra le due dottrine”» 101.
Riporto per esteso l’importante passo in cui Papini, oltre ad evidenziare i possibili punti di contatto tra le due dottrine, rimarcava le loro differenze.
“I punti sui quali sembrano accordarsi son due: l’importanza della previsione e il rigetto delle questioni futili e assurde. Ma proprio anche su questi due punti – senza contare gli altri che vedremo poi – esistono le differenze. Infatti il Pragmatismo non considera la
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previsione soltanto come possibilità di applicazioni pratiche o come aiuto per la verifica delle teorie, ma anche come mezzo di definizione e d’interpretazione delle teorie medesime. In questo caso, perciò, essa rappresenta un’aggiunta del tutto nuova al metodo positivista. Il Pragmatismo come il Positivismo, condanna e scarta le questioni assurde e vuote che compongono in gran parte le metafisiche ma non le scarta col pretesto della loro insolubilità. I positivisti, cioè, sono quasi tutti agnostici e dicono che la mente umana non può arrivare a risolverle, – i pragmatisti, invece, sono tutti antiagnostici e sostengono che non è vero che quei problemi sono troppo alti per la nostra intelligenza ma troppo vuoti di senso (o stupidi) e che il non volersene occupare non è prova d’impotenza ma di potenza della nostra mente. I positivisti respingevano la metafisica ma siccome non spiegavano abbastanza perché bisognava respingerla, lasciavano aperte le vie del ritorno ai problemi esiliati. E accade anche qualcosa di più grave, cioè che la mancanza, nelle loro teorie, di un’analisi abbastanza profonda dei metodi della scienza e della filosofia fece sì che in loro stessi, nel loro stesso pensiero, potesse di nuovo tessere le sue tele il ragno metafisico. Si videro così i maggiori rappresentanti del metodo positivo i quali vociferavano ad ogni occasione contro la vana e vuota metafisica e poi non si accorgevano delle cattive e puerili metafisiche ch’erano nei loro libri e nei loro discorsi. L’agnosticismo, il monismo, il materialismo, l’evoluzionismo che quasi sempre sono associati o mescolati nelle menti dei positivisti, sono dottrine metafisiche che suppongono a loro volta tacite premesse metafisiche. L’agnosticismo implica la credenza a un mondo più reale del nostro mondo – il monismo fa appello ai concetti universali impensabili – l’evoluzionismo suppone una specie di piano provvidenziale dell’universo e così di seguito. Il Positivismo è dunque solo verbalmente antimetafisico mentre il Pragmatismo è antimetafisico sostanzialmente. E le differenze non finiscon qui. Ci sono nel Pragmatismo almeno tre tendenze che nel Positivismo non esistono affatto o solo allo stato germinale. Prima di tutto il principio dell’economia del pensiero di cui si trova traccia piuttosto in Occam e in Leibniz che nei positivisti – in secondo luogo il rovesciamento dell’assioma baconiano (sapere è potere) cioè la dimostrazione dell’influenza del potere e della possibilità di potere sulle credenze e sulle
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teorie – e finalmente l’emancipazione del pensiero dai fatti immediati e dalla razionalità pura, che si manifesta nel Pragmatismo colle teorie sopra la creazione dei fatti e delle ipotesi da parte dello scienziato e con quelle sopra l’indipendenza della deduzione dalla ragionevolezza dei presupposti, cioè sulla facoltà di partire da ipotesi assurde o fantastiche per costruire nuove ipotesi e nuove scienze” – e concludeva – “Il Pragmatismo può continuare, su certi punti, l’opera di alcuni fra i migliori positivisti ma si può quasi dire ch’esso è costituito, a guardar bene, dalle sue differenze dal Positivismo. Sarebbe difficile esser più diversi di così!” 102.
Poi, Papini espone le ragioni per le quali sarebbe bene esser pragmatisti. Non sono da sdegnare, a suo avviso, i guadagni spirituali di chi è o diventa pragmatista e, presentati a modo suo, con la consueta enfasi persuasoria, non si possono non apprezzare. Sono: guadagno di tempo (per via dell’epurazione delle “questioni insolubili” o dei pretesi “enigmi dell’universo” dalla riflessione), eccitamento mentale (“che dà la coscienza della nostra padronanza sopra i concetti scientifici e sopra la nostra mente e il sentire la plasticità della conoscenza e l’aprirsi di sfere sempre più larghe di possibilità offerte dalla immaginazione deduttiva e dal potere dell’anima umana sopra l’universo”) il suo carattere di cosa non finita (“che può offrire, perciò, a quelli che vi si rivolgono la possibilità di poterla sviluppare e trasformare, di essere cioè non solo seguaci ma nello stesso tempo dei creatori”) e la comodità (“che il Pragmatismo offre di non essere di per sé una metafisica ma di permettere il godimento estetico o morale delle metafisiche esistenti o possibili”).
Ne Il Pragmatismo messo in ordine 103. di Papini, prima di una breve analisi sui possibili antenati del Pragmatismo, troviamo l’esposizione del “carattere predominante” della dottrina.
«Questo carattere si può dire, con brutta parola, il disirrigidimento delle teorie e delle credenze, cioè il riconoscere il puro loro valore strumentale; il dire che esse valgono, cioè, soltanto relativamente a un fine o a un ordine di fini e che perciò sono suscettibili di essere cambiate, mutate e trasformate ove occorra» 104.
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