Ignoti
| Pubblicato su: | Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXIII, fasc. 5, p. 3 | ||
| Data: | 5 gennaio 1958 |

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Quando i sette vecchioni scrissero sul tempio di Delfo, in bei caratteri d'oro, l'ordine «conosci te stesso» non s'accorsero che chiedevano, con aria innocente, una delle forme dell'impossibile. Anche l'uomo singolo, come l'uomo idea, è a se stesso un problema e, più che un problema, un ideogramma non decifrabile. Quelli stessi che scendono ogni tanto nei sottosuoli dell'anima e tentano d'illuminare colla spietatezza dell'analisi i pozzi d'ignominia che ciascuno di noi porta in sè e magari vivono tutta la vita a guardarsi vivere non posson dire di conoscersi. Riportan su, da queste immersioni, qualche frantume di verità che la luce del giorno scolora e il tempo fria; o fermano rifrazioni d'un giorno, morgane d'un attimo, fili che ad ogni momento l'esperienza strappa fra le più coraggiose mani.
L'uomo non è a se stesso conoscibile perchè la sua vita consiste in alternati sforzi per esser ciò che non è e codesta continua trasposizione e sostituzione di anime irreali ed estranee, fa sì ch'egli è veramente, al contrario d'Iddio, ciò che mai non è. Anche nel più povero di noi ci sono almeno sette uomini.
C'è quello che appare agli altri e che il giudicato, giustamente, sa quasi sempre di non essere.
C'è quello che dice di essere che lui stesso sa di non essere perchè la vanità o la paura lo fanno sempre bugiardo.
C'è quello che crede di essere ed è il più lontano dalla verità, che ciascuno inclina a credersi ciò che non è, per una ritorsione dell'orgoglio, che scarta tutto il peggio, ch'è il più.
C'è quello che vorrebbe essere, il mito personale d'ogni uomo, sogno riservato al futuro, quello che poi deforma tutte le autobiografie.
C'è quello che finge di essere per le comodità e le necessità della vita comune, dove l'insensibile deve mostrarsi caldo, l'avaro liberale e il vile coraggioso.
C'è quello che potrebbe dirsi il nostro doppio incognito: la personalità subcosciente, che noi non conosciamo che vagamente e per supposizione, benchè essa guidi spesso la nostra vita e suggerisca, giovandosi ipocritamente di finte ragioni, molti dei nostri atti.
E c'è, finalmente, quello che veramente è e che nessuno conosce, al di fuori d'Iddio, e del quale appena un nemico paziente può intravedere qualche inferiore frazione.
Anche i contemplatori di se stessi, se pure riescono a stare in guardia contro il narcisismo, sanno che l'introspezione altera, per il fatto stesso di concentrar la luce in un punto, la genuina sostanza d'un pensiero o d'una scelta e, coll'insistenza, inibisce ogni spontaneità. Sicchè neppur chi consacra gran parte del tempo a spiare i moti e le colorazioni del suo spirito, è sicuro d'ottenerne un ritratto certo — anzi è meno sicuro di tutti gli altri che non si fermano a contare i battiti della vita.
Ogni uomo, quando sta per esser nascosto nella terra, è un libro quasi tutto inedito e ch'egli stesso potrà leggere soltanto alla luce dei «Novissimi».
Eppure la conoscenza di sè sarebbe la conoscenza più necessaria fra le tante inutili che possediamo, non soltanto per sfuggire gli errori e tentare le bonifiche, ma perchè sapere ciò che siamo vorrebbe dire conoscere senza dubbiezza quella particolare missione alla quale ciascuno di noi è destinato.
Non è soltanto la domanda dei santi novizi, ma di chiunque sia nato non soltanto a masticar pane e calpestar pietre. I più nobili hanno il sentore che ogni uomo ha il suo compito, grande o minimo, nell'infinita economia divina. L'uomo non è un bruto irresponsabile, che può contentarsi di mangiare per non morire e di amare per riprodursi. Frequenti presagi l'avvertono che al di là del lavoro quotidiano a cui è condannato è commessa un'opera ulteriore da un Padrone giusto, che l'ha fornito di quei doni appunto che a quell'opera occorrono. Ma poichè nessuno conosce la verità di se stesso, nessuno giunge a scoprire la sua destinazione e seguirla. Tutti noi andiamo qua e là a tentoni, erranti e brancolanti, e soltanto per caso o per illuminazione della grazia riusciamo a imboccare la via designata a percorrerla. I più non fanno ciò che a loro — soltanto a loro — fu assegnato o compiono, male, missioni alle quali non erano chiamati. E si son visti esattori e doganieri, che soltanto sul tardi hanno capito d'essere nati per essere apostoli; poeti o pensatori e ve ne sono infiniti altri che non lo sapranno mai, mentre fanno versi o filosofie o costituzioni, che avrebbero dovuto contentarsi del metro del merciaiolo o della zappa dello sterratore. E forse molti, ch'eran chiamati alla santità o alla profezia, si sono tristemente imbozzacchiti sui registri dei banchi o nella gibbosità del professorato.
Questo disperdimento della parvificenza nasce dalla forma più satanica dell'umiltà: quasi nessuno pensa ch'è figliolo d'Iddio e che Dio può aver bisogno di lui. «Mi hanno detto — scrisse un pazzo — che son figlio dell'uomo e della donna. Ciò mi stupisce... Credevo d'esser qualcosa ai più». Ma rari sono i saggi che hanno l'eroica saggezza d'inalzarsi fino a questa pazzia. Non sanno chi sono e non sapranno mai ciò che avrebbero potuto essere. L'uomo è un ambasciatore che ignora la sua patria e dimentica il messaggio che gli fu affidato.
E di questa fatale ignoranza del nostro reale «me», non c'è speranza che ci guariscano quelli che vivono intorno a noi. Noi non conosciamo gli altri e gli altri non conoscono noi. Ognuno è un'isola circondata da occhi spenti di ciechi. Apprendiamo soltanto i segni — e non sempre interpretabili — della vita ordinaria, comuni a tutti — cioè quelle sole cose che non val la pena di conoscere. Ma dell'uomo interno scorgiamo solo qualche riverbero che non basta a ricostruire la persona intera. L'odio è, a volte, più divinatore dell'affetto, ma anche l'odio falsifica e deforma perchè non vede che il male e non tutto il male e non le ragioni del male. Coloro che ci amano hanno modellato coll'immaginazione indulgente dei primi tempi un'immagine nostra che può soddisfare, in parte, la nostra superbia e i nostri gusti teatrici, ma che non è certo la giusta. Ma cristallizzata che sia, non riescono più a cambiarla e tutti i nostri mutamenti li fanno rientrare a forza nei contorni prestabiliti. Possono, ad un tratto, spezzar l'immagine quando l'amicizia è divenuta incresciosa e allora ne disegnano un'altra maligna, che non è più fedele della prima.
Ma codesti strappatori di maschere son poi rarissimi, chè i più, per pigrizia e indifferenza si servono di noi o giocano con noi, ma non pensano a forzare le nostre molteplici scorze. A ciascuno preme assai più di nasconder se stesso che scoprire gli altri. L'universale amor di se ci vieta di osare la nostra propria rivelazione e ci fa trascurare il disvelamento altrui. Se uno di noi, per un'improvvisa sosta della sorveglianza, mostra il suo vero volto nessuno sa distinguerlo dai tanti volti fatticci, che via via deponiamo sulla nostra faccia. Ma forse anche questa irreparabile inconoscibilità della nostra essenziale figura è una delle prove della misericordia divina. La maggior parte di noi, se potesse vedersi nella sua scorticata nudità, n'avrebbe un indicibile spavento. L'esser ciechi ci salva dal ribrezzo d'una insopprimibile compagnia. Se i santi, proprio i più perfetti di noi, e che hanno la seconda vista interiore, confessano fino all'ultimo d'esser immondi e indegni, qual mai terrificante immagine di mostro vedrebbe in fondo all'anima, se potesse senza velame vederla, il placido «uomo comune»?
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